Archivio Ivano Maiorella

Diritti, minoranze, unioni civili

di Ivano Maiorella


Dribblando il populismo paludoso di ideologizzazioni e crociate, la classe politica puo’ dare ora e adesso un esempio di vitalità, in tema di unioni civili. E, per quella parte  di classe politica di centrosinistra che in questo momento governa, anche di lealtà nei confronti dei suoi elettori e di ciò che era stato promesso loro. L’Italia ha alle spalle trent’anni di tentativi (ricordate i pacs? ricordate i dico?) ed è matura nell’opinione pubblica  una coscienza civile piu’ avanzata in tema di unioni civili. Evidenza importante per un paese come il nostro che non e’ mai stato avanguardia in temi di diritti civili. Con particolare riferimento a cio’ che e’ scritto e regolato nel titolo 5 del codice civile, quello dedicato alle persone e alla famiglia. Definita “societa naturale”, definizione bellissima a mio avviso, al pari di quella, altrettanto bella, di “buon padre di famiglia” che il codice usa per definire la diligenza con la quale bisogna adempiere agli obblighi patrimoniali contratti. Entrambe le definizioni ci riportano a concetti base del vivere civile. Il diritto ci insegna che giustizia e verità non sono assoluti. La società muta e il diritto serve a riscrivere, nel corso del tempo, nuovi ordinamenti giuridici socialmente accettati, architravi complessi del vivere civili, del rispetto, della dignità delle persone. Il codice civile e’ del 1942 e nessuno si sentirebbe di obiettare al fatto che societa’ naturale rimane una definizione bellissima da applicare alle “formazioni sociali” che nel frattempo si sono affermate. Cosí come un giorno si potrebbe scrivere: “con la diligenza del buon padre e delle buona madre di famiglia”. E di tutti coloro che per le ragioni piu’ varie, non sono padri, nè madri ma semplicemente brave persone, che vogliono rispettare le leggi senza vedersi ricambiati, dalle medesime leggi che vogliono rispettare, con pregiudizi, discriminazioni e offese.

La legge  Cirinnà in tema di unioni civili ci sembra abbia queste caratteristiche, consolida un diritto, si muove in una cornice sufficientemente generale (non generica) così come una legge deve fare. I tempi e l’opinione pubblica oggi sembrano in grado, anche in Italia, di comprendere le ragioni di chi non vuole piu’ continuare a nascondersi non avendo commesso alcun crimine. Una comunità grande o piccola che ha avuto il merito in questi anni di esporsi ed “esibirsi” al pregiudizio altrui con coraggio. Dovremmo ringraziare queste persone perche’ ci hanno creduto quando in Italia erano davvero in pochi a crederci, anche a sinistra.

La comunità Lgbt ha avuto questo merito insieme alle organizzazioni sociali che ne hanno condiviso e sostenuto l’impegno e a chi da sempre ascolta e difende le minoranze, in quanto tali. Istanze che nascono nel sociale, che ancora una volta si mostra più sensibile ai mutamenti e alle spinte dal basso di quanto non faccia la politica.

Il 2016 in dieci parole

di Ivano Maiorella


Il 2016 che anno sarà? Questo editoriale porta una firma collettiva, quella dell’intera redazione del Grs: ecco i telegrammi di ognuno, sintetizzati in una parola, un auspicio, un segnale. O anche in un rumore, perché la radio è quello: attenzione alle parole e ai suoni, alle voci e alla musica. Anche così cerchiamo di fare comunicazione sociale. Eccovi le nostre dieci parole per leggere il 2016, dalla A di Accoglienza alla R di Redistribuire, passando per Attenzione, Cambiamento, Consapevolezza, Donne, Informare, Innovazione, Partecipare, Rallentare.

 

Accoglienza come stile di vita. Accoglienza è un’apertura: chi accoglie rende partecipe di qualcosa di proprio, si offre, si spalanca verso l’altro diventando un tutt’uno con lui,
Accoglienza è far esistere, o sentire, una persona umana, e ci permette di capire le nuove povertà e le sofferenze di coloro che vengono esclusi dalla società. Senza lo stile dell’accoglienza, forse ci si può sentire bravi cittadini, ma non  cittadini responsabilmente partecipi della vita.

 

Attenzione, ovvero maggiore attenzione verso il mondo che ci circonda, le persone e la loro vita. Attenzione per chi troppo spesso è dimenticato o abita in zone del mondo di cui non si parla mai. Attenzione a quello che si racconta e a come si fa, perché nel nostro mestiere, come nella vita, le parole contano.

 

Cambiamento: nello sport, italiano e mondiale, c’è bisogno di seguire nuove strade. A tracciare il percorso potrà essere lo sport sociale. Un cambiamento ai vertici del sistema sportivo ma soprattutto nei suoi obiettivi: inclusione, solidarietà, integrazione, diritti uguali per tutti. Donne, bambini, persone con disabilità, migranti, rifugiati. Lo sport unisce e anticipa il progresso sociale.

 

Consapevolezza del proprio ruolo, della società, dello spazio che si occupa e del tempo che si vive. Solo la consapevolezza apre le porte della comprensione, quella che non teme la diversità ma al contrario ne conserva il valore. Quella che fa emancipare dalle parole inculcate e dai dicktat dei costumi sociali. Essere consapevoli vuol dire preservare la libertà della mente.

 

Donne: nel 2015 hanno sfidato lo spazio, sostenuto il peso del welfare con lavori malpagati, ci hanno insegnato come essere cittadini attivi anche da vittime del terrorismo, sono state minacciate perché vincenti in uno sport da maschi;  che il 2016 le valorizzi non come le più brave della classe ma per quello che sono e che vogliono.

 

Informare, perché lo dice la  Costituzione italiana, art. 21, “che tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, con la parola, lo scritto ed ogni altro mezzo di diffusione.” Informare è rendere consapevoli, fare delle scelte, essere liberi. Informare è l’impegno quotidianano di raccontare il sociale e dare voce a quello che gli altri non dicono. Informare è la sfida del Grs per il 2016.

 

Innovazione: chissà se quest’anno Babbo Natale ha ricevuto dai bambini letterine via mail, o attraverso i social network, indipendentemente dalla loro condizione sociale o dal luogo geografico nel quale abitano. Perché l’innovazione, può davvero cambiare la vita di ciascuno di noi, ma solo attraverso una diffusione universale, rivolta soprattutto a chi è in difficoltà o ha minori possibilità, altrimenti la forza che può esprimere non avrà mai quell’impatto rivoluzionario che potenzialmente può e deve rappresentare.

 

Partecipare è un verbo spesso abusato. Partecipare vuol dire costruire cultura, partecipare a percorsi in cui i vissuti si incrociano dando vita ad altri percorsi e ad altri vissuti e non finire mai.
Partecipare ai racconti dei migranti, a chi fugge dai conflitti. Perché la cultura non è un territorio circondato da confini, ma è partecipare alla cultura altrui.

 

Rallentare per crescere tutti insieme, in dignita e in diritti, perche aspettare chi e’ in coda al gruppo aiuta chi sta davanti a scegliere con più giustizia la direzione, perche questo non significa perdere tempo ma acquistarne. Rallentare per riflettere su come dividere, ad esempio. Camminare anzichè correre, per guardarsi intorno senza che la fretta diventi l’alibi per non accorgerci di chi ci e’ vicino.

 

Redistribuire. È questa il verbo contro la crisi per il 2016: da chi concentra troppe ricchezze e chi vive in povertà, dal Nord del Paese al Sud dimenticato. Redistribuire per la giustizia e per i diritti.

 

Buon 2016 dalla redazione del Giornale Radio Sociale: Pietro (e Lorenzo) Briganò, Giovanna Carnevale, Clara Capponi, Elena Fiorani, Giuseppe Manzo, Ivano Maiorella,  Anna Monterubbianesi, Fabio Piccolino, Giordano Sottosanti, Francesca Spanò, Anna Ventrella.

Mettersi nei panni degli altri

di Ivano Maiorella


Mettersi nei panni degli altri: il primo appuntamento di Fqts a Caserta è partito da questo invito, martedi 10 novembre. Utile al programma didattico e formativo ma anche un comportamento di vita, da sperimentare sempre. Anche di fronte a quanto sarebbe avvenuto a Parigi tre giorni dopo, venerdi 13 novembre. Cercheremo di spiegare perché ci è venuto naturale questo accostamento in giornate nelle quali la confusione e lo smarrimento rischiano di rendere fasulla ogni analisi. Ci proviamo lo stesso e andiamo avanti con ordine.

Fqts di Caserta dicevamo, Formazione Quadri del Terzo Settore del Sud, al via col suo secondo ciclo triennale aperto a Caserta dal 10 al 15 novembre. Vogliamo partire da qui. Un appuntamento intenso, volto a segnare un discrimine: non un ciclo di convegni ma un corso intensivo di formazione. Un investimento sul capitale umano del Sud, presupposto di ogni sviluppo futuro, per provare a guardare le cose da angolazioni diverse, per cercare nuove strade e determinare cambiamenti.
Per acquisire una mentalità aperta bisogna uscire fuori dalle prigioni delle abitudini, è stato detto in apertura. Il terzo settore e i suoi quadri possono mettersi in gioco, essere attori di cambiamento. Sono valore sociale e possiedono una “visione”. Questo significa essere davvero terzo settore.

Andrea Volterrani è partito dal valore sociale del terzo settore. Che cos’è? “C’è stata un’epoca, quella degli anni ’90, nella quale in primo piano c’era il tema del valore economico del terzo settore. Da allora si è creata una certa confusione tra valore sociale e valutazione dell’impatto sociale”.

“Il terzo settore ha tante componenti – ha proseguito Volterrani – ciò che ci contraddistingue è il porgersi la domanda: esistiamo in funzione delle attività e dei servizi che eroghiamo? E se smettessimo le attività, continueremmo ad avere un ruolo per il solo fatto di esistere? Quello che rimane al netto delle attività è il valore sociale, ovvero partecipazione, democrazia, condividere una visione con altri”.

Quindi il terzo settore è portatore di democrazia, partecipazione, coesione sociale in quanto possiede una “visione”. “Avere visioni vuol dire darsi un orizzonte – ha detto Emilio Vergani, autore di “Costruire visioni”, Exorma editore, Roma 2012 – Vuol dire abbracciare un altro paradigma che si concentra sull’agire, e non solo sul fare, sul lavorare a progetti o erogare servizi, ovvero su un orizzonte più ampio che è la visione. La visione non è un punto di vista di uno solo ma un orizzonte ampio con tanti e infiniti punti di vista. Non è neanche l’utopia, lo sguardo ossessivo di qualcuno, di un leader”. La peggiore nemica della “visione” è l’ideologia. Proviamoci, allora, a metterci nei panni degli altri per provare a comprendere quello che sta gettando l’Europa nello sgomento. Arrivano come pietre le notizie da Parigi. Mettersi nei panni dell’altro. Mettersi nei panni dei cittadini parigini in quelle ore di terrore, in quelli delle vittime, dei familiari, di chi è scampato, di chi ha ucciso a freddo, di chi medita di continuarlo a fare. Di chi pensa: che succederà domani? Di chi si pone interrogativi, di chi cerca di comprendere l’altro. E se provi, per un momento, a metterti nei panni dei terroristi dell’Is ti accorgi del buoi fitto dello spirito e della ragione.  Il fanatismo religioso e quello ideologico sopprimono ogni visione diversa dalla propria, non c’è domani, le altre persone e i loro panni non esistono.

Aldo Capitini era un “visionario”: “La bellezza della nonviolenza è che essa preferisce non di distruggere gli avversari ma di lottare con loro in modo nobile e dignitoso, con il metodo non violento, che fa bene, prima o poi, a chi lo applica e a chi loriceve. In fondo è più coraggioso volere vivi e ragionanti gli avversari, che farli a pezzi” (Azione nonviolenta, Perugia, 1968).

Da quattro anni in compagnia di voci di strada

di Ivano Maiorella


Wolfman Jack, vogliamo incominciare da lui, anche se il suo nome non vi dirà molto. Se ne andava venti anni fa, tondi tondi, a 57 anni, era il disc jockey radiofonico più famoso d’ America, celebre in tutto il mondo dopo che aveva interpretato se stesso in American Graffiti di George Lucas nel 1973. Bene, Lupo Solitario non è stato un personaggio della radio, era la radio. La radio accompagna, di notte, di giorno, sempre che tu ne abbia voglia. Lo abbiamo imparato proprio da lui. La radio non chiede tutta l’attenzione per sè, non distrae, non è gelosa della convivenza con altri media, la radio è libera. Forse anche per questo motivo, quattro anni fa, era l’ottobre del 2011, decidemmo di dar vita al Giornale Radio Sociale. Ne approfittiamo per raccontare alcune caratteristiche di questo progetto di comunicazione sociale.

Quattro candeline che spegniamo con una nuova buona notizia: dalla fine di settembre il Giornale Radio Sociale andrà in onda a mezzogiorno, a Roma, sui 103.300 in FM dal lunedì al venerdì, all’interno delle fasce di programmazione curate da RadioArticolo1. Un appuntamento che si aggiunge a quelli con le 64 radio in Fm in tutta Italia e alle 40 web radio che già trasmettono l’edizione quotidiana del GRS. Vogliamo citarle e ringraziarle tutte, da Radio Amica a Radio Voce della Speranza, da Palermo a Venezia, da Radio 100 Passi a Radio Siani. Ecco l’elenco completo.

Rileggiamo insieme alcune idee che hanno dato vita al Giornale Radio Sociale, testata giornalistica promossa dal Forum del Terzo Settore. Un’edizione quotidiana di tre minuti con notizie di società, diritti, economia, internazionale, cultura, sport.

1. L’esperienza nasce dalla “costruzione di un ambiente cooperativo” intorno alla creazione di “spazi in cui ogni attore possa esprimersi e collaborare con altri, in cui le relazioni siano incentivate e facilitate”. Definizioni, queste, nelle quali ci siamo ritrovati e che abbiamo preso in prestito da Marco Binotto dal suo “Comunicazione sociale 2.0” (ed. Nuova cultura),

La radio ci è sembrato il canale naturale per un’esperienza di comunicazione sociale che nasceva all’interno del terzo settore, mettendo in rete i network associativi attraverso un flusso di notizie nuovo, originale, che privilegia il punto di vista dei protagonisti del terzo settore – più o meno noti, oppure assolutamente sconosciuti, voci del territorio – con metodo giornalistico, provando a rovesciare alcuni cosiddetti criteri di notiziabilità.

Cercando di avvicinare chi produce informazione – o la trasmette – e chi la riceve, cercando di abbattere il diaframma tra nazionale e locale, valorizzando le reti territoriali, cercando di annullare le distanze. Anche grazie al potenziamento del sito internet e a quello dei social.

2. In questo modo abbiamo visto che il linguaggio si innova e si fa rispettoso anche grazie al fatto che i soggetti che ne popolano il perimetro sono molteplici. Molta attenzione e molte riunioni settimanali di redazione le abbiamo dedicate proprio al linguaggio. Anche se il linguaggio della radio è prevalentemente  la musica, in quanto testata giornalistica che guarda al modello all news cerchiamo di ricomprendere suoni, voci, rumori, strada, “sporco” che convivono col genere musicale, ne fanno parte. Mobilità, flessibilità e snellezza: la radio arriva dappertutto, radio di flusso, riesce a stare velocemente dove si svolgono i fatti. Questo non significa superficialità e disattenzione, soprattutto nel linguaggio.

3. Occupare lo spazio pubblico mediale: farsi media, anche grazie ai bassi costi di produzione. In questa maniera si ottiene un duplice vantaggio: il primo, si diventa “canale”, si produce informazione, si “media” con gli altri media dal punto di vista editoriale e si interpreta l’esperienza giornalistica con gli strumenti del giornalismo (selezione, rilevanza, incrocio delle fonti, sintesi…). Secondo, come suggerisce Volterrani nel suo “Saturare l’immaginario” (ed. Exorma), ci si “mette nei panni dell’altro” per rispondere a questa domanda: “come possono le organizzazioni del terzo settore riappropriarsi della facoltà di immaginare e, dunque, di creare nuovi spazi e nuova semantica fra immaginario e realtà?”. Volterrani propone cinque percorsi, dei quali tre fanno al caso nostro: 1. mettersi nei “panni dell’altro per “comprenderne meccanismi, stili, linguaggi, luoghi…”; 2. capacità di scoprire storie, “raccoglierle, analizzarle, per poi inventarne, costruirne e commissionarne di nuove, rappresentative per la comunità e la collettività”; 3. media education, nel senso di acquisire competenze per “scardinare” o almeno modificare, immaginari e rappresentazioni sociali consolidati.

4. Empowerment, ovvero valorizzare e moltiplicare le capacità professionali e relazionali (personali, collettive, associative) partendo da una comune matrice giornalistica: la ricerca delle notizie. Nasce così una redazione composta da sei redazioni: società, diritti, economia, internazionale, cultura e sport. La classica impaginazione che si sovrappone a sei fasce specifiche considerate come insediamento permanente – in alcuni casi trasversale – delle organizzazioni sociali, piccole e grandi, del terzo settore italiano.

5. Tecnologia e innovazione, i canali si moltiplicano e influenzano il messaggio. Le web radio rappresentano nuovi spazi di comunicazione, capacità di adattamento alle trasformazioni e interpretazione del nuovo. Il Giornale Radio Sociale utilizza vari ambienti, dal web all’FM; varie modalità comunicative (voce, testi, immagini, video…); vari generi giornalistici (l’edizione giornaliera radiofonica, gli speciali, le dirette, gli approfondimenti del Grs week). Un’intermedialità che continuerà ad arricchirsi, innovarsi, sperimentarsi. Che si mette ogni giorno alla prova.

Mai più ultimi

di Ivano Maiorella


“Mai più ultimi nella cooperazione internazionale”: ha detto proprio così il premier Renzi chiudendo la Festa del Pd a Milano. Un concetto che aveva anticipato giorni fa al Corriere della Sera e che il ministro degli esteri Gentiloni aveva ribadito, intervistato dall’Espresso: “A cominciare dalla prossima legge di stabilità dobbiamo recuperare, sia pure gradualmente, un ruolo importante nel campo della cooperazione. Che non è più esclusivamente solidarietà e assistenza ma serve anche a ridurre le cause dei fenomeni migratori”. Non solo, aggiunge il ministro: “Serve anche a creare le basi di rapporti economici strategici per il futuro dell’Italia”. E forse anche a guadagnare un seggio all’Onu, al quale il governo italiano aspira. Lo fa legittimamente se alle promesse seguiranno i fatti e le idee: più cooperazione significa più umanità e più dignità, senza se e senza ma.

Mai più ultimi in libertà e democrazia. Lo giurarono i padri della della Repubblica, l’8 settembre di 72 anni fa, era il 1943. L’armata italiana si era sciolta, tutti a casa in ventiquattr’ore, re e vertci militari in fuga, un milione di persone con addosso una divisa che non valeva più niente. Gente sparsa in Italia e sui fronti dei paesi occupati, dall’Albania, alla Jugoslavia alla Grecia, sbandati, profughi, prigionieri, bersagli. Il presidente Ciampi definì così l’8 settembre: moriva una certa idea di patria fascista e ne nasce un’altra, democratica. Venne costituito il Comitato di Liberazione Nazionale e iniziarono venti mesi di Resistenza. E iniziarono le rappresaglie nazifasciste, come quella di Cravasco, vicino Genova, dove il 22 marzo 1945 furono fucilati 18 partigiani, alcuni giovanissimi altri professionisti e padri di famiglia. Uno di loro, Arrigo Diodati, sopravvisse miracolosamente e successivamente diede vita a numerose esperienze associative per la cultura, l’escursionismo e lo sport. Pubblichiamo la foto dell’eccidio di Crevasco: vi ricorda niente questa immagine di morti ammassati l’uno sull’altro?

Mai più ultimi ad indicare strade per uscire senza ipocrisie dalla strage dei migranti. Questo chiedono le organizzazioni sociali e il volontariato al governo italiano. C’è il problema dei richiedenti asilo e dei profughi siriani e delle altre guerre. Ma c’è anche il problema epocale di chi fugge dalla miseria e preme ai confini chiedendo dignità e umanità. L’11 settembre a Venezia la marcia delle donne e degli uomini scalzi chiederà corridoi umanitari: pensiamo sia un’iniziativa importante promossa da vari settori di società civile, artisti, gente di cinema e gente comune.

I flussi di migrazioni funzionano così, genti premono su altre genti e avviene lo spostamento. L’Italia è tornata ad essere paese di migranti con decine di migliaia di giovani connazionali che, ad esempio, hanno scelto Londra e la Gran Bretagna. Allo stesso tempo l’Italia continua ad essere terra di immigrazione e di passaggio. A che cosa servono i confini? A stabilire dove finiscono le responsabilità amministrative di uno stato e incominciano quelle di un altro. Il confine, il limes, non può essere figlio di un’idea difensiva ma è il prodotto di un’idea amministrativa. è un’idea difensiva. Anzi Roma antica incominciò a costruire alte mura difensive quando era al tramonto, quando era debole, non quando era forte. I Romani erano insuperabili nel costruire opere architettoniche come ponti, strade, fognature e acquedotti. Non mura difensive: la costruzione delle ciclopiche mura aureliane segna l’inizio della decadenza, era il terzo secolo d.C. E servirono solo a ritardare, non a fermare i successivi sacchi della città. “Restiamo umani”, terminava così i suoi articoli il cooperante e attivista italiano Vittorio Arrigoni, ucciso a Gaza nell’aprile del 2011.

Ps: dedicato agli sforzi del governo italiano per non restare ultimi nella cooperazione, nelle politiche internazionali e nelle scelte sui migranti, in tema di libertà e democrazia. E, restiamo umani, please.

 

 

 

Il diavolo, mio fratello

di Ivano Maiorella


Vi supplico, vi prego, vi ordino in nome di Dio: cessi la repressione!“: il giorno dopo aver pronunciato questa frase, monsignor Oscar Romero veniva freddato da un sicario degli squadroni della morte, milizie armate al soldo dei governi militari sudamericani. Era il 24 marzo 1980, un colpo di pistola mente stava celebrando la messa nella cappella di un ospedale di San Salvador.

Un’altra vittima della teologia della liberazione, fu detto per molti anni. Finchè papa Francesco il 23 maggio ha beatificato monsignor Romero, consentendo anche alla chiesa di rileggere quegli anni in modo diverso.  Che anni erano quelli? L’11 settembre 1973 il Cile piombava nella dittatura di Pinochet. Poco prima, in giugno, in Uruguay un colpo di stato aveva sciolto il Parlamento. Nel marzo del ’76 i militari argentini tornavano al potere. Torture e sequestri a ripetizione, con decine di migliaia di persone e di giovani che diventavano “invisibili”, desaparecidos. Ampi settori della chiesa latinoamericana scelsero la strada più impegnativa. “Questo zelante pastore – ha sottolineato papa Francesco parlando di Romero – sull’esempio di Gesù, ha scelto di essere in mezzo al suo popolo, specialmente ai poveri e agli oppressi, anche a costo della vita”. La teologia della liberazione continua ad esserci, ma in anni recenti si è affrancata dallo schienamento marxista – consegnato ai libri di storia – e si è avvicinata ai problemi ambientali e ai movimenti no global.

Nonostante ciò vale la pena riprendersi le fonti e studiare quegli anni. Memoria, conoscenza e futuro, perché non tornino “i centurioni che hanno preso il potere per una necessità del sistema e il terrorismo di stato si metta in moto quando le classi dominanti non possono più realizzare i loro affari con altri mezzi” (E. Galeano, “Le vene aperte dell’America Latina”, ed. 1997, Sperling & Kupfer, pag. 339).

Così abbiamo fatto, siamo andati indietro nel tempo, con l’aiuto di qualche ricordo personale. La teologia della liberazione nasce come interpretazione del Concilio Vaticano II (1962-65) che si riproponeva la riscoperta della parola di Dio in un contesto di impegno con i poveri e gli oppressi. Alcuni vescovi sudamericani incominciarono a prendere posizione contro le dittature e i regimi militari. Nel 1971 il vescovo peruviano Gustavo Gutiérrez Merino pubblica un libro, “Teologia della liberazione”. Il movimento comincia a conquistare forza teoretica e si propaga. Non senza suscitare polemiche anche aspre all’interno della chiesa che lo rimproverava di subire un’influenza marxista.

Perché stiamo parlando di queste cose? Perché le riflessioni e i pensieri che i fatti suscitano in ognuno di noi si legano l’un l’altro e prendono strade personali. Ma non solo: non c’è opposizione tra laicità e religiosità. Libertà di pensiero da ogni condizionamento autoritario: questo insegnamento, che abbiamo assimilato proprio negli anni ’70, è di tutti, nella responsabilità di fede e di pensiero, da Gobetti a Bobbio. Ecco perché ambiente, pace, diritti, equità, solidarietà e giustizia sociale sono valori sociali e di tutti.

La modernissima beatificazione di monsignor Oscar Romero ci ha suscitato queste riflessioni. E il ricordo forte di un segno, da attribuire agli uomini e alle donne della teologia della liberazione che ho incontrato negli anni della formazione, quelli ’70 per l’appunto.

I nomi potrebbero essere tanti. Mi limito alle conoscenze personali. Ernesto Balducci ad esempio , scomparso nel 1992 per incidente stradale, che negli anni ’80 ispirò i movimenti pacifisti e di cooperazione italiana, attraverso la rivista “Testimonianze”.

Marco Bisceglia, parroco della Chiesa del Sacro Cuore di Lavello (Pz) che aveva aderito pubblicamente alla teologia della liberazione, scontrandosi con le gerarchie cattoliche. Vittima di un inganno e di uno scandalo giornalistico che ne seguì fu sospeso a divinis. Omosessuale e favorevole alla liberazione delle persone omosessuali, iniziò a collaborare con l’Arci e nel 1980 fondò Arci Gay, imponendo la tematica anche ad una sinistra all’epoca disattenta e contraria. Morì di Aids nel 1996.

Dom Giovanni Franzoni, abate di San Paolo Fuori le Mura a Roma dal 1964. Capace di dar vita ad un movimento di giovani che tuttora è attivo, quello delle Comunità di base e dei Cristiani per il socialismo. Giovanni Franzoni in quegli anni coniugava la lettura del Vangelo con il contesto sociale che si stava vivendo, esprimendosi contro la guerra in Vietnam e in solidarietà con le lotte operaie. Dopo essere stato ridotto allo stato laicale fu sospeso a divinis nel 1976, dopo aver preso posizione nel referendum a favore del divorzio. Continua il suo impegno con la rivista “Confronti”, da lui fondata nel 1973 con il nome di “Com-Nuovi tempi”.

Il titolo del nostro editoriale “Il diavolo mio fratello” lo abbiamo preso in prestito da un suo scritto degli anni ’70, perché lo abbiamo associato a questa frase di monsignor Romero, pronunciata durante l’omelia per la morte di padre Rutilio Grande, gesuita, suo amico e collaboratore, assassinato dal regime salvadoregno: “Vogliamo dirvi, fratelli criminali che vi amiamo e che chiediamo il pentimento per i vostri cuori”.

Parole che ci battono sulle tempie, come quelle pronunciate da Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani, il giorno dei funerali del marito, del giudice Falcone e delle altre persone vittime della mafia a Capaci, nel 1992. Anche allora, il 23 maggio.

 

 

 

Cinque tesi per un racconto sociale dell’Expo

di Ivano Maiorella


«Mi auguro che sia l’ultima grande opera fatta con grandi deroghe»: così il presidente dell’Anac, Raffaele Cantone, ha parlato dell’Expo che si è inaugurata a Milano. Eppure non è un terremoto, non un Campionato del mondo di calcio e neppure un’Olimpiade. Non è neanche un summit tipo Kyoto. Perché l’Expo di Milano divide?
Lascia esterefatti il contrasto tra le bocche da sfamare e il luccichio di questa grande opera, dedicata alla povertà e al cibo. Si chiama Expo, che male c’è a mostrarsi? Eppure la bellezza dei padiglioni nazionali dovrebbe essere pari al grado di efficienza con il quale si affronta la sfida principale: sfamare il mondo. E invece l’impressione è che si tratta di una gara di scintillìo fine a se stessa.  Abilità estetica e muscolarità finanziaria nel reperire più risorse possibili, tra stato e mercato. Forse per questo uno degli stand giudicati migliori è quello della Svizzera.
Ci sarà il tempo giusto per capire se in Expo c’è verità, coerenza, serietà, etica, legalità. Il tema è importante e non siamo “gufi”. Ai pregiudizi preferiamo zero etichette, no logo, conteranno i fatti. Che cosa dicono sinora i fatti? Si vede tanto e si comprende poco. Gli interessi in ballo sono enormi, l’agricoltura industriale chiede strada e quella cosiddetta sostenibile rimane in ombra. Abbiamo selezionato cinque temi attraverso i quali incominciare a leggere l’Expo:
1. una scommessa sul futuro: sfamare il mondo. Se gli organizzatori fossero stati meno ambiziosi nei propositi, non sarebbe morto nessuno. Ma oggi si fa così, se la spari grossa fai bella figura e domani si vedrà. Quello che una volta si chiamava realismo è diventato pessimismo e guai a noi se ci iscriviamo a quel partito.
2. “consegna lavori”: ci si affida alle cronache di queste ore e si legge che visitatori e giornalisti si sono fatti strada tra i calcinacci e gli stand sbarrati (anche quello dell’Unione Europea). La stampa estera non sarà tenera, c’è da giurarci. Ma anche in altri eventi internazionali è spesso così.
3. corruzione. Una corsa all’italiana, viziata “da un deficit di democrazia e da un grosso conflitto di interesse”: “nessun organo elettivo e di rappresentanza democratica ha mai votato di fare Expo 2015 a Milano; la scelta dell’area di Rho-Pero per svolgervi la rassegna è un grosso regalo a Fiera”, si legge nel sito No Expo. Siamo d’accordo con Cantone.
4. lavoro,  lo showdown dei giovani scansafatiche che hanno rinunciato al posto, come hanno riportato alcuni giornali, era fasullo. Si è venuto a sapere che molti di loro hanno rinunciato a 500 euro lordi al mese, insufficienti persino a pagare le spese. Ma di lavoro si dovrà parlare ancora: quanti posti creerà l’Expo?
5. volontariato e terzo settore. Ci sono i volontari scesi nelle strade per aggiustare le devastazioni dei black bloc, post 1 maggio. Gente di tutte le età e ceto sociale, a favore o critica con Expo. Una grande prova di civismo, uno sbarramento antiviolenza. Ci sono i volontari reclutati dalle associazioni del territorio attraverso la campagna nazionale dei Centri di Servizio del Volontariato. C’è poi l’area della Cascina Triulza, con un intero Padiglione dedicato alle realtà del terzo settore. Una scommessa complessa che nei prossimi giorni andrà vissuta, conosciuta e raccontata. Con libertà di giudizio e fuori dalle istituzioni, come è proprio di questo complesso mondo. Anche per questo comunicazione e testate sociali saranno da tenere d’occhio.

Con la coscienza in fondo al mare

di Ivano Maiorella


E’ stato già detto e visto tutto. C’è odore di morte intorno ai “giardini ” delle nostre case e il Mediterraneo è una bara. Bisognava arrivare a questo? Diplomazia e politica balbettano. Vergogna umana che chiama in causa i colpevoli, uno ad uno in prima fila con la coscienza segnata dal sangue: criminalità organizzata e scafisti, mercanti di morte e di armi, politici e governi corrotti. E appunto: diplomazia e politica balbettanti. La loro falsa coscienza non regge più: conservare è il male peggiore, non si può più. Quelle centinaia di morti andavano evitati, con tutte le forze dell’ingegno e della misericordia umani. Quello che è successo ieri nel Canale di Sicilia era stato più volte annunciato, dalle Ong e dalle associazioni che si occupano di cooperazione e diritti internazionali, di pace, di mediazione culturale, di soccorso. I missionari, i medici, i volontari di tutto il mondo e tutte le persone di buona volontà che operano laggiù, avevano avvertito l’Europa e il mondo.
L’Europa e i paesi ricchi si muovano nella direzione che la voce di questi avamposti di civiltà umana indicano da tempo, senza se e senza ma: 1. costruire e proteggere corridoi umanitari nel Meditteraneo; 2. destinare risorse adeguate per l’attività di cooperazione allo sviluppo da parte dell’Europa e dei singoli Paesi (il nostro, ad esempio, destina a questo capito un sesto di quanto promette); 3. sostenere i sindaci e i Comuni italiani nel creare posti di accoglienza e di ricovero per i migranti richiedenti asilo o semplicemente in transito nel nostro Paese verso altri luoghi; 4. rivedere le normative vigenti, in tema di asilo e ricongiungimento; 5.educare all’accoglienza, alla legalità e alla giustizia sociale: ripartire dalle scuole.
Papa Francesco continua a scuotere con energia inedita le torri d’avorio di ognuno di noi, qualcosa succederà. E forse era questa la terza guerra mondiale della quale parlava, combattuta da una parte sola. E’ ciò addolora ancor di più: da una parte il bisogno naturale di essere umani che chiedono di avere una chance dalla vita, una speranza. E affrontano il burrone con candida incoscienza. Dall’altra chi nega questa possibilità, si scansa e si nasconde, perchè “non tocca a me”. A chi, se no?
Chiedere di non rimanere da soli a fronteggiare questa emergenza è legittimo da parte del nostro e di altri Paesi nei confronti dell’Europa e delle grandi organizzazioni mondiali. La prima richiesta a non rimanere da soli ci viene però dalla nostra coscienza perchè a spingere ci sono quei morti sepolti dal mare.

Masse e potere

di Ivano Maiorella


Ancora piazze, ancora popolo. A Tunisi il Forum Sociale si è concluso con una manifestazione inimmaginabile, settantamila persone nelle strade, a fare da corona al Museo Bardo. Tante famiglie, tante giovani donne, con e senza velo: sono loro l’immagine che rimarrà di una giornata importante. No al terrorismo, no alla violenza, no alla repressione: qui e in tutto il mondo. Sì alla democrazia, alla partecipazione, ai diritti. Sì alla libertà di espressione: “Je suis Bardo”, la mente corre alla strage del gionale satirico Charlie Hedbo, in gennaio. Anche lì una inimmaginabile risposta popolare a Parigi, risposta sociale, culturale e di popolo. Con l’Europa dei governi nazionali in prima fila, proprio come a Tunisi. Non l’Europa politica e unita, ancora incapace di sentirsi popolo. E neppure gli Usa. Il Mediterraneo è vena aperta, inutile continuarlo a negare. I corridoi umanitari per fuggire dalla miseria e dalla persecuzione, così come i corridoi di democrazia, vanno costruiti giorno per giorno, come patrimonio delicato e meraviglioso. Come lo è la democrazia tunisina. L’Europa se ne faccia una ragione.

Ancora piazze, ancora masse. Le persone e la politica del sociale sono avanti, la politica dei partiti prima o poi arriva, ma va strattonata, va presa per la giacchetta e spinta in prima fila. Pietro Ingrao, che il 30 marzo compie 100 anni, ci ha insegnato proprio questo: La partecipazione delle masse e la socializzazione della politica non restino chiuse in orizzonti aziendalistici e localistici; e tandano a trovare le forma articolate per investire il rapporto Stato-processo produttivo e quindi per dare corposità e generalità alla sovranità del cittadino-produttore. E i partiti possono divenire costruttori di sintesi generali, che non appiattiscono la società, non pretendono di risolverla tutta in loro stessi, non annullano dall’alto dogmaticamente lo sviluppo delle contraddizioni”.

E conclude, Ingrao: “Insomma non si risolvono – i partiti – in deleghe”. Tutto ciò per spiegare che il pluralismo – e la democrazia – vanno vissuti carnalmente dai cittadini, non semplicemente delegati: “la forma dello stato, il modo di essere dei partiti nello stato, la dimensione dell’assemblea si presentano come elementi essenziali per un pluralismo che non si esaurisca nella pluralità dei partiti” (Masse e potere di P.Ingrao, Editori Riunit, Roma 1977, pag. 387). Attenzione, insomma, ai pluralismi di facciata. Buon compleanno, Pietro Ingrao.

Bologna chiama Napoli: popoli e piazze contro la corruzione

di Ivano Maiorella


(di I.Maiorella e G. Manzo). Popoli e piazze, uniti contro la corruzione: a Bologna don Luigi Ciotti, a Napoli papa Francesco. Piazze distanti parecchi chilometri, unite dall’emergenza e dal popolo. La mafia sta dappertutto, cambia la facciata non la sostanza: camorra, n’drangheta, mafia capitale o in salsa emiliana o lombarda. La puzza non risparmia nessuno. E nessuno si senta immune da questa “putrefazione”. Attacca così don Luigi in piazza VIII agosto a Bologna, di fronte a tante facce di ragazzi e ragazze venuti qui da tutta Italia. “Tocca a noi , alla societa’ civile fare uno scatto tutti insieme contro le mafie – prosegue –  C’e’ bisogno di un risveglio delle coscienze. Dobbiamo fare di piu’, oggi tanta gente a Bologna in piazza e tanti giovani con le facce pulite. Bene, ma dobbiamo sporcarci di piu’ le mani per scacciarle definitivamente le mafie, ve lo chiedo per piacere”. Un’implorazione quella di don Ciotti, una scintilla laica che viene da un prete. Segno dei tempi, la crisi delle coscienze passa anche da qui, l’etica laica abortisce se non diventa responsabilità pubblica, oltre che personale.

“Bene ha fatto papa Francesco a ricordare che siamo sull’orlo di una nuova guerra – dice ancora Ciotti –  Le mafie vivono in mezzo a noi e vorrei dire a chi si preoccupa di cacciare i migranti che bisognerebbe cacciare i mafiosi. Al mondo della politica diciamo di fare presto, di approvare senza toccare neppure una virgola la legge contro i delitti contro l’ambiente. La tossicita’ della terra dei fuochi continua ad uccidere cosi come l’amianto”.

Eccolo l’incontro tra la piazza di Bologna e quella di Napoli, uniti contro tutte le corruzioni: le mafie dei rifiuti tossici e quella della mondezza, quella degli appalti e quella in doppiopetto.

“La corruzione puzza, la società corrotta puzza e un cristiano che fa entrare dentro di sé la corruzione non è cristiano. La buona politica è una delle espressioni più alte della carità, a cominciare dalle realtà locali”. Questo ha gridato Bergoglio davanti al popolo di Scampia, mettendo al centro il lavoro e puntando il dito contro lo sfruttamento dei nostri giorni: “11 ore al giorno, 500 euro al mese e senza contributi: questa è schiavitù”. Non è solo un monito. Francesco l’argentino usa la sua naturale fisicità per arrivare a quella platea popolare che chiede diritti e giustizia sociale ma non ha rappresentanza. In una Napoli irreale, blindata e deserta camminano fedeli delle parrocchie, famiglie con bambini, giovani, lavoratori, laici e non credenti. Insieme al grande evento si muove la sofferenza sociale della capitale del Sud, tra le bandierine vendute a 1 euro e i foulard a 5 dagli ambulanti improvvisati. Dall’alba al tramonto, da Pompei fino al Lungomare, Bergoglio trova una città “pulita” ma consapevole della vetrina offerta alle Pontefice e alle tv. Gli stessi media che non sono potuti entrare nel carcere di Poggioreale, il penitenziario più affollato d’Italia, dove per la prima volta un Papa pranza insieme a un gruppo di detenuti. E fuori una folla festante che vuole solo un cenno o un saluto. E poi, sfumate dal “mezzo miracolo” dello scioglimento del sangue di San Gennaro, arrivano ancora parole dure, stavolta rivolte proprio al Vescovo Crescenzio Sepe e ai prelati della Diocesi napoletana: “Quanti scandali nella Chiesa e quanta mancanza di libertà per i soldi!”.
Va via quasi al tramonto Bergoglio, lasciandosi alle spalle il mare del golfo e migliaia di persone che tornano alle proprie case, ma soprattutto tornano nella quotidiana assenza di rappresentanza: Napoli e il resto del Paese cercano una speranza, una guida collettiva e un’etica. No, non è in queste istituzioni e in questa politica che si trovano risposte se prima non si combatte la corruzione e la sua puzza.