Un giorno a Mineo

di Anna Monterubbianesi

“Cosa hai visto? Che situazione hai trovato? Quanti sono? Come stanno? Come trascorrono le giornate? Dalla mattina alla sera che fanno?”

Non è facile rispondere alle tante domande di chi chiede incuriosito di raccontare la tua visita al CARA di Mineo, uno dei più grandi Centri di accoglienza per richiedenti asilo nel nostro Paese e uno dei più emblematici.

Il CARA di Mineo può forse sembrare migliore rispetto agli altri, almeno all’apparenza,  perché non ha le sembianze della grande caserma, ma quelle di un ‘villaggio’, abitato però da quasi 4.000 persone. Tanti bilocali a due piani, tutti uguali, puliti dentro e fuori (per quello che ci è stato concesso di vedere), spazi comuni per stare insieme all’aperto e al chiuso,  luoghi dedicati alla formazione, luoghi per bambini e mamme (che ultimamente sono non più di una trentina). 25 nazionalità diverse, più di 250 etnie presenti, rappresentanti per ogni nazionalità e intermediatori culturali. Una partecipazione attiva di tutti i presenti e una gestione bilaterale, perché quello che gli ospiti chiedono viene preso in considerazione, e si cerca di venirgli incontro per quanto è possibile. Gli ospiti sono al 90% maschi, ragazzi tra i 19 e i 28 anni e tra loro c’è una buona integrazione, quasi mai disordini.

Tante cose ti dicono quando arrivi a Mineo, tante ne hai lette, tante te ne hanno raccontate di luoghi simili. Eppure solo quando lo vedi con i tuoi occhi ti rendi conto di come funziona e di cosa si tratta e te ne fai una tua personale idea. Allo stesso tempo, non è così facile. Perché c’è quello che vedi, e quello che ti fanno vedere. C’è quello che senti, e quello che ti fanno ascoltare.

A Mineo tutto scorre lento. Il CARA è nel mezzo di una vallata, tra le campagne del catanese, lontano dai centri abitati. Il villaggio è recintato e circondato da militari, anche se, da quando siamo arrivati, abbiamo visto tanti ospiti in bicicletta entrare ed uscire con relativa facilità (non certo la stessa riservata a noi, che abbiamo subìto scrupolosi controlli prima di poter accedere). I ragazzi sono tanti, ma dentro al CARA ne vedi pochi, forse appena un 10%. Domandi dove siano i 4000 ragazzi che dovrebbero essere lì, e come trascorrono le lunghe giornate. Qualcuno ti dice che la maggior parte di loro è in casa con l’aria condizionata perché fuori fa caldo. Pensi che è strano, perché i ragazzi vengono dall’Africa, ma vai avanti. Visiti le aule della formazione, piccole, con soli 15 posti ciascuna. Pensi che sono troppo piccole e che ci dovranno essere tanti turni per permettere a tutti di partecipare, ma vai avanti. Poi arrivi alla mensa, vedi la fila per prendere il pasto, e quasi nessuno seduto ai tavoli. Ti accorgi che in tanti preferiscono prendere il loro sacchetto-pranzo e andar via piuttosto che rimanere seduti alla mensa. E allora pensi che forse così confezionato il pasto è più facile da smerciare in altri posti, in altri momenti. Vai avanti…

I pochi ragazzi che vedi sono belli, con quella pelle così scura e gli occhi così profondi. Sono giovani ma i loro sguardi non li puoi paragonare nemmeno lontanamente a quelli dei nostri ragazzi, loro coetanei. Hanno negli occhi gli anni di chi è cresciuto in fretta, di chi di dolore ne ha visto già tanto. Hanno cicatrici sul viso e sulle braccia.  E non sai cosa chiedergli quando incontri alcuni dei superstiti di uno dei più grandi naufragi degli ultimi mesi dove hanno perso la vita più di 700 persone. Cosa gli chiedo, ti domandi? Ogni domanda ti sembra stupida e inutile. Non riesci a non pensare a tutto quello che hanno passato prima di quel lungo viaggio in barca che li ha portati, in pochi, a Mineo, davanti ai tuoi occhi. La fame, la sete, il caldo, le perdite, le percosse, il dolore, la fatica, l’attesa, la mancanza dei cari, la mancanza di amore, la mancanza di dignità. E poi quel viaggio in mare. La barca strapiena e i corpi pressati. Le onde e la paura. E insieme la speranza che tutto quello che che hanno vissuto stia per volgere alla fine. La preghiera che quel viaggio termini presto per arrivare a destinazione, la speranza di ritrovare finalmente i propri cari già partiti e di costruirsi un futuro nuovo.
Poi la barca che affonda.
Cosa gli chiedi quando ti ci trovi occhi negli occhi? Quando sai che più di 5 minuti lì con loro non potrai restare? Io non sono riuscita a chiedere nulla.

I ragazzi restano a Mineo in attesa di vedersi riconosciuto il diritto di asilo. Quasi l’attesa di un giudizio divino che deciderà del loro futuro, delle loro speranze. Gli ospiti restano nel centro 13 mesi, quando tutto va bene… E in questi anni succede che chi è preposto alla gestione del centro si prende cura degli ospiti per tutto il tempo necessario: comprare cibo e cucinarlo per nutrire 4000 persone, vestirle, scandire le loro giornate con attività, farle dormire su 4000 materassi, manutenere le case in cui abitano, gestire i loro rifiuti. E poi ci sono militari, medici, avvocati, psicologi,interpreti, volontari, cooperanti. Intorno ad ogni centro gravita un mondo parallelo, e quindi necessariamente interessi economici. “Con gli immigrati si fanno molti più soldi che con la droga”, la citazione d’altra parte è tristemente nota ma, senza ipocrisie, gli immigrati diventano anche un business. E se ci sono tanti volontari e associazioni che operano nel bene e nell’interesse delle persone che hanno bisogno c’è sempre chi, al contrario, ha bisogno delle persone per fare il proprio interesse e il proprio bene.

Difficile allora raccontare cosa ho visto a Mineo, perché Mineo è solo il pretesto. Il problema è molto più ampio ed esiste fuori da Mineo e fuori dai tanti altri centri ricettivi per migranti, ma che è ben radicato dentro tanti Paesi che dovrebbero occuparsi urgentemente delle politiche migratorie e dell’accoglienza.

Allora dov’è il problema? Di chi è la colpa? Di chi scappa? Di chi è disperato? Di chi rischia la propria vita per cercarne una più fortunata? Di chi non fa abbastanza per aiutare le persone nel loro Paese? Di chi non blocca le partenze? Di chi accoglie? Di chi fa dell’accoglienza un business? Di chi spera che l’arrivo dei migranti porti un lavoro ai propri figli? Di chi trova nei migranti braccia forti per avere lavoro a prezzi vantaggiosi? Di chi chiude le porte in faccia ai migranti? Di chi dice che già abbiamo i nostri problemi e i nostri disgraziati e che prima dobbiamo pensare a loro? Dell’Europa che ci lascia soli? Dei Paesi che non lasciano entrare? Di chi gioisce dei naufragi perché i nostri pesci avranno cibo da mangiare, e più morti significano meno soldi da spendere? Di chi uccide per non far entrare? Dell’Italia che non fa abbastanza, che non mette in campo politiche più efficaci per prevenire e affrontare il problema, che non affida alle strutture preposte queste tematiche e che non accelera i tempi burocratici che servono a garantire diritti fondamentali di ogni uomo, come riconosciuto dalla nostra Costituzione? Di chi non costruisce reali percorsi di inclusione e integrazione?

Le domande sono tante e ognuna può essere lecita, fino a che non viene trovato il tempo di dare le risposte. E intanto ogni risposta non data pesa sulla vita di tante persone. E per sapere questo, che sono persone come ciascuno di noi, che sono vite umane uguali alle nostre, che hanno diritto di cercare fortuna e dare un futuro ai loro figli, come abbiamo fatto in passato noi, non era necessario arrivare fino a Mineo.