Guardare un concerto nel ventunesimo secolo

black keysUn paio di sere fa sono stato al concerto dei Black Keys all’Ippodromo di Capannelle di Roma.
Non voglio parlare del live in sè, della scaletta, dell’acustica o della performance della band.
Mi interessa piuttosto l’analisi del fenomeno, ossia la fruizione di un grande evento nel 2014.
L’evento di massa che spinge migliaia di persone a pagare un biglietto non proprio a buon mercato (45 euro, compresi i diritti di prevendita), a mettersi in viaggio in una città che di certo non aiuta la mobilità e il parcheggio, fare una fila considerevole e condividere con molti altri sconosciuti un paio d’ore di buona musica.
Fin qui nulla di nuovo, di strano o di diverso dal solito.

Quello che però mi stupisce è la trasformazione dell’atteggiamento delle persone nell’epoca dei social network e dell’apparire ad ogni costo.
Il poter dire “io c’ero” ad una potenziale sterminata platea, condividendo sulle piattaforme virtuali prove tangibili della propria partecipazione.
Gli smartphone così, diventano i protagonisti indiscussi.
Quando il concerto inizia, si levano al cielo centinaia di mani armate di telefoni.
Un bosco di braccia tese (per dirla con Mogol-Battisti) ed illuminate, pronta a carpire ogni istante dell’esibizione.
Fare il video dell’inizio della performance. Fare il video di una canzone. Fare il video di tutto il concerto.
Quello che significa, in verità,  è guardare l’intero live con un braccio alzato, sfidando le leggi della fisica e della resistenza degli arti, ed impedendo in parte la visuale a chi si trova dietro e ha qualche centimetro di meno.

Perchè? Qual è il senso di questa azione così automatica nell’epoca in cui viviamo?
Così tante persone che sentono l’esigenza di dover riprendere il concerto, non di viverlo. Non di partecipare attivamente, di lasciarsi abbandonare alla musica e alle emozioni che trasmette.
Vale davvero la pena di non essere libero di ascoltare per poter avere il magro bottino di un video girato in bassa qualità, con un’inquadratura tutt’altro che salda e con un audio molto discutibile?
Questo cercare a tutti i costi di imprimere il momento, vanificando l’unicità dell’evento. Oppure l’esigenza di raccontare al mondo la propria partecipazione al concerto, condividendo immagini e video sui social network o incrementando di qualche unità le visualizzazioni sul proprio canale youtube (salvo poi verificare che su youtube i momenti salienti del concerto sono già stati caricati in alta qualità  da qualcuno che le ha registrate con mezzi tecnici certamente superiori).
Il discorso è complesso, e non si ferma alle riprese con il cellulare, certamente aspetto più evidente del passo dei tempi.

E’ l’intero atteggiamento di fronte ad un evento di questo tipo che negli ultimi anni si è trasformato.
L’attenzione, per esempio.
Andare ad un concerto è sempre meno reale e sempre più realtà virtuale, mediata dalle nostre abitudini.
Un pubblico abituato alle possibilità  pressoché infinite del web, può aver già visto l’esibizione della band in questione decine di volte, guardando concerti registrati a migliaia di chilometri di distanza, con il potere di passare da una canzone all’altra, mandando avanti i momenti più noiosi.
E proprio come se guardasse un video su youtube, presta un’attenzione sempre meno intensa a quello che succede sul palco, prendendosi il lusso di parlare a voce alta durante le canzoni che non conosce o che ritiene poco interessanti e di entusiasmarsi  senza freni sulle hit, per le quali è riservato, oltre all’urlo a squarciagola del testo anche un surreale cantato delle parti musicali.
Un pubblico che a volte ha già la scaletta in tasca, e di tanto in tanto sbircia sul proprio smartphone quale sarà il pezzo successivo, inscatolando la spontaneità del momento e vanificando ogni sorpresa.
Un pubblico esigente e spesso maleducato, che utilizza l’artista come jukebox personale e non tributandogli il rispetto che merita nelle proprie scelte artistiche,  borbottando durante i pezzi del nuovo disco (che non conosce) e chiedendo a gran voce di suonare “quelle vecchie”.

Il concerto non è più partecipazione, condivisione, evento di massa, ma si trasforma in un individualismo esasperato. Vogliamo che quel momento sia nostro, strappato dal contesto e rinchiuso dentro il nostro cellulare, per poterlo riutilizzare a piacimento. Desideriamo il potere di decidere quello che succede sul palco o vogliamo saperlo prima che accada.
E’ il consumismo delle emozioni, la possibilità di avere tutto e subito e di pretenderlo senza aspettare, stancandocene presto ed esigendo sempre qualcos’altro.
Il paradosso forse è proprio questo. Siamo la generazione più informata e con le maggiori possibilità tecnologiche della storia, ma stiamo perdendo di vista la realtà.
Ascoltare, osservare, battere le mani, vivere il momento e condividerlo con gli altri sono azioni naturali di cui dovremmo provare a riscoprire la semplicità. Perché tutto sommato, siamo fatti di carne, mente e sentimenti.