Cosa sta accadendo alle attività culturali nelle carceri? Intervista a Fabio Cavalli


 

A cura di Giovanna Carnevale 

Nelle scorse settimane una circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria è intervenuta sulle regole che riguardano l’organizzazione di attività culturali e ricreative negli istituti, in particolare per il circuito di alta sicurezza. Il rischio, come ha sottolineato anche il Portavoce della Conferenza nazionale dei Garanti delle persone private della libertà, Samuele Ciambriello (ascolta il GRS WEEK “Dei diritti e delle pene”) è che le carceri diventino sempre più chiuse al mondo esterno e che ai detenuti venga data sempre meno l’opportunità di una crescita personale attraverso l’arte, la formazione, la socialità.

 

Per parlare di cosa sta accadendo nel sistema penitenziario italiano, ma anche del valore e della funzione dell’arte nelle carceri, abbiamo intervistato Fabio Cavalli, attore, regista teatrale e fondatore nel 2003 del Teatro libero di Rebibbia.
Il Centro Studi Enrico Maria Salerno, di cui è direttore generale, sta organizzando una conferenza sul tema il prossimo 22 dicembre, nel Teatro del carcere di Rebibbia.

 

Fabio Cavalli: innanzitutto, qual è la sua esperienza con le persone private di libertà?

 

Insieme a Laura Andreini del Centro Studi Enrico Maria Salerno siamo attivi nel mondo penitenziario dal 2003, quindi sono 23 anni che operiamo nel campo dell’attività di risocializzazione attraverso l’arte delle persone detenute. La nostra attività insiste particolarmente sul carcere di Rebibbia Nuovo Complesso a Roma, che è uno dei più grandi di Europa e al momento ospita quasi 1.600 persone, ovviamente con un tasso di sovraffollamento.

In questi 20 anni e più abbiamo incontrato più di 2.000 persone detenute che hanno fatto attività di teatro, musica, cinema e arti visive che noi proponiamo in carcere e abbiamo avuto dei grandi risultati: molti dei nostri collaboratori sono usciti liberi diventando attori. Questo si è verificato soprattutto dopo l’esperienza che ho svolto con i fratelli Taviani col film “Cesare deve morire”, che ho scritto insieme a loro e che ha vinto l’Orso d’oro a Berlino del 2012: quasi tutte le persone che allora partecipavano al film erano detenute nel reparto dell’alta sicurezza di Rebibbia e oggi lavorano nella compagnia teatrale che continuiamo a gestire, e continuano a testimoniare il valore e la funzione dell’arte.

 

Cosa genera nelle persone private di libertà un’attività come quella che voi svolgete?

 

Parliamo di persone che spesso non hanno coscienza del concetto di bellezza in senso classico, per motivi di scarso studio o vite disperse altrove: ecco, per loro l’esperienza della recitazione e del palcoscenico cambia veramente la vita. Rispetto ai tassi di recidiva che sono altissimi nel nostro Paese, ovvero del 65-70% – mi riferisco a persone che escono dal carcere, libere temporaneamente, e poi rientrano per aver commesso nuovi reati – per chi durante il periodo di detenzione svolge attività culturale, il tasso scende tantissimo e si attesta attorno al 15%. Allora se da un punto di vista sociologico questo ha un senso, credo che abbia un senso anche dal punto di vista umano. Perché una volta incontrata l’arte durante la detenzione, non si torna a delinquere? È una domanda interessante su cui riflettere, e che infatti pongo spesso agli studenti a cui insegno.

 

 

Cosa pensa della recente circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria?

 

Il 21 ottobre scorso è intervenuto un provvedimento del Dap che preoccupa i movimenti che utilizzano l’arte per il riscatto sociale e umano per le persone detenute. In Italia ci sono 198 carceri e ci sono 80, 90 compagnie teatrali all’interno. Poi c’è la musica, le arti grafiche e le università che hanno il loro polo nei penitenziari. Nella circolare si dice che tutte le attività debbano essere molto più controllate rispetto al passato. La preoccupazione è che si creino dei problemi per l’accesso dei volontari che aiutano lo dello sviluppo culturale dei detenuti.  Con la mia esperienza nelle carceri, posso testimoniare che episodi gravi non ci sono mai stati, non mi risultano proprio.

È una circolare che non pare rispondere a un’emergenza intervenuta, ma piuttosto voler aumentare i controlli su ciò che accade al di fuori dell’attività stretta degli operatori penitenziari. Si tenga conto che l’area educativa delle carceri, quindi i funzionari a dipendenza del Ministero, per quanto sono pochi arrivano a dedicare solo 2 ore l’anno a ogni persona.

Se si rende così faticoso e sospettoso l’ingresso dei volontari in carcere non so fino a quando le attività reggeranno. Si tratta anche dei volontari religiosi, di persone legate alle curie e a varie religioni che sono presenti nelle carceri, di attività di formazione regionali.

Come Centro Studi Enrico Maria Salerno abbiamo convocato al Teatro del carcere di Rebibbia a Roma, il prossimo 22 dicembre, una conferenza pubblica con spettacoli ed eventi, chiamando la politica ad intervenire per capire cosa cambierà concretamente dopo questa circolare. Ci auguriamo di essere autorizzati.