È l’obiettivo di due campioni di basket italiani che vogliono portare sport e diritti ai bambini più poveri del mondo. Con l’associazione Slums dunk hanno legato la pallacanestro a parità di genere, uguaglianza, educazione, per i bambini delle baraccopoli di Nairobi ed ora sono attivi anche in Zambia. Il prossimo canestro sarà raggiungere con il loro messaggio i giovani argentini.
Dopo un viaggio in Kenya nel 2012, Bruno Cerella e Tommaso Marino avevano dato vita a Slums Dunk Onlus, un’organizzazione nata per portare nelle zone degradate dell’Africa il basket e tutti i benefici che lo sport porta con sé: diritti, parità di genere, uguaglianza, educazione, felicità, educazione. E un impegno che ora guarda anche più lontano: in Argentina. D’altronde loro sul campo sono tutti i giorni: classe 1986, il primo è un cestista italo-argentino attualmente in forze al Reyer Venezia Mestre in serieAe vincitore dell’ultimo campionato italiano; il secondo è il capitano de L’OraSì Ravenna, che gioca in serie A2. La onlus nasce da un gioco di parole in cui il termine «slam dunk» (schiacciata nel basket, ndr) viene sostituito da «slum», il termine con cui sono conosciute le baraccopoli delle ex colonie britanniche dell’Africa.
Nel 2014 è stato costruito il primo campo di pallacanestro nella baraccopoli di Mathare a Nairobi (poi intitolato a Matteo «Teo» Bertolazzi, cestista morto nel 2013 a seguito di una leucemia, e amico di Cerella e Marino, ndr) ed è stata attivata una scuola di minibasket: proprio qui, si stima vivano 95mila persone in 1,5 chilometri quadrati, con il 50 per cento della popolazione composta da giovani con meno di 18 anni con accesso limitato ai servizi primari come acqua, elettricità e servizi igienici. Questo è stato solo l’inizio: ad oggi Slums Dunk coinvolge quasi 500 bambini divisi in quattro «basketball academy», in Kenya e Zambia.
Il progetto ha un impatto molto forte: «Lo sport è solo il tramite per insegnare a questi ragazzi le regole del gruppo, le responsabilità. Tramite lo sport tanti hanno avuto la possibilità di andare a scuola fuori dalla baraccopoli. E questo vuole dire istruzione, poter mangiare, poter diventare una risorsa per la società in futuro, e non un peso come spesso capita per chi rimane nelle baraccopoli». Perché un campione sente a un certo punto il bisogno di mettere «in campo» le sue doti per gli altri? «Siamo stati fortunati a vivere dove siamo ora, con tutti i confort che questo comporta. Sapere che possiamo contribuire a cambiare la vita di qualcuno che è nato in uno slum di Nairobi è una sensazione impagabile, che lo sport da solo, quello che ci impegna come professionisti, non può dare», spiega.
L’idea, ora, è di far canestro oltre confine, arrivando fino in Argentina, terra natale di Bruno. Tutti i bambini nascono con dei sogni, in Italia come in Kenya: «Certo, siamo solo una piccola realtà,ma anche noi possiamo fare molto per vincere la battaglia contro la discriminazione nello sport», conclude Tommaso. Quando ancora oggi «assistiamo a questi episodi in Italia, vediamo insultare un ragazzo in un campo di calcio o di basket, dobbiamo sapere che una volta quello era un bambino che sognava un futuro in un campo lontano dall’Africa, mentre giocava a calcio in mezzo ai rifiuti con un pallone fatto di carta e magari senza neppure l’opportunità di mangiare».