“Vi supplico, vi prego, vi ordino in nome di Dio: cessi la repressione!“: il giorno dopo aver pronunciato questa frase, monsignor Oscar Romero veniva freddato da un sicario degli squadroni della morte, milizie armate al soldo dei governi militari sudamericani. Era il 24 marzo 1980, un colpo di pistola mente stava celebrando la messa nella cappella di un ospedale di San Salvador.
Un’altra vittima della teologia della liberazione, fu detto per molti anni. Finchè papa Francesco il 23 maggio ha beatificato monsignor Romero, consentendo anche alla chiesa di rileggere quegli anni in modo diverso. Che anni erano quelli? L’11 settembre 1973 il Cile piombava nella dittatura di Pinochet. Poco prima, in giugno, in Uruguay un colpo di stato aveva sciolto il Parlamento. Nel marzo del ’76 i militari argentini tornavano al potere. Torture e sequestri a ripetizione, con decine di migliaia di persone e di giovani che diventavano “invisibili”, desaparecidos. Ampi settori della chiesa latinoamericana scelsero la strada più impegnativa. “Questo zelante pastore – ha sottolineato papa Francesco parlando di Romero – sull’esempio di Gesù, ha scelto di essere in mezzo al suo popolo, specialmente ai poveri e agli oppressi, anche a costo della vita”. La teologia della liberazione continua ad esserci, ma in anni recenti si è affrancata dallo schienamento marxista – consegnato ai libri di storia – e si è avvicinata ai problemi ambientali e ai movimenti no global.
Nonostante ciò vale la pena riprendersi le fonti e studiare quegli anni. Memoria, conoscenza e futuro, perché non tornino “i centurioni che hanno preso il potere per una necessità del sistema e il terrorismo di stato si metta in moto quando le classi dominanti non possono più realizzare i loro affari con altri mezzi” (E. Galeano, “Le vene aperte dell’America Latina”, ed. 1997, Sperling & Kupfer, pag. 339).
Così abbiamo fatto, siamo andati indietro nel tempo, con l’aiuto di qualche ricordo personale. La teologia della liberazione nasce come interpretazione del Concilio Vaticano II (1962-65) che si riproponeva la riscoperta della parola di Dio in un contesto di impegno con i poveri e gli oppressi. Alcuni vescovi sudamericani incominciarono a prendere posizione contro le dittature e i regimi militari. Nel 1971 il vescovo peruviano Gustavo Gutiérrez Merino pubblica un libro, “Teologia della liberazione”. Il movimento comincia a conquistare forza teoretica e si propaga. Non senza suscitare polemiche anche aspre all’interno della chiesa che lo rimproverava di subire un’influenza marxista.
Perché stiamo parlando di queste cose? Perché le riflessioni e i pensieri che i fatti suscitano in ognuno di noi si legano l’un l’altro e prendono strade personali. Ma non solo: non c’è opposizione tra laicità e religiosità. Libertà di pensiero da ogni condizionamento autoritario: questo insegnamento, che abbiamo assimilato proprio negli anni ’70, è di tutti, nella responsabilità di fede e di pensiero, da Gobetti a Bobbio. Ecco perché ambiente, pace, diritti, equità, solidarietà e giustizia sociale sono valori sociali e di tutti.
La modernissima beatificazione di monsignor Oscar Romero ci ha suscitato queste riflessioni. E il ricordo forte di un segno, da attribuire agli uomini e alle donne della teologia della liberazione che ho incontrato negli anni della formazione, quelli ’70 per l’appunto.
I nomi potrebbero essere tanti. Mi limito alle conoscenze personali. Ernesto Balducci ad esempio , scomparso nel 1992 per incidente stradale, che negli anni ’80 ispirò i movimenti pacifisti e di cooperazione italiana, attraverso la rivista “Testimonianze”.
Marco Bisceglia, parroco della Chiesa del Sacro Cuore di Lavello (Pz) che aveva aderito pubblicamente alla teologia della liberazione, scontrandosi con le gerarchie cattoliche. Vittima di un inganno e di uno scandalo giornalistico che ne seguì fu sospeso a divinis. Omosessuale e favorevole alla liberazione delle persone omosessuali, iniziò a collaborare con l’Arci e nel 1980 fondò Arci Gay, imponendo la tematica anche ad una sinistra all’epoca disattenta e contraria. Morì di Aids nel 1996.
Dom Giovanni Franzoni, abate di San Paolo Fuori le Mura a Roma dal 1964. Capace di dar vita ad un movimento di giovani che tuttora è attivo, quello delle Comunità di base e dei Cristiani per il socialismo. Giovanni Franzoni in quegli anni coniugava la lettura del Vangelo con il contesto sociale che si stava vivendo, esprimendosi contro la guerra in Vietnam e in solidarietà con le lotte operaie. Dopo essere stato ridotto allo stato laicale fu sospeso a divinis nel 1976, dopo aver preso posizione nel referendum a favore del divorzio. Continua il suo impegno con la rivista “Confronti”, da lui fondata nel 1973 con il nome di “Com-Nuovi tempi”.
Il titolo del nostro editoriale “Il diavolo mio fratello” lo abbiamo preso in prestito da un suo scritto degli anni ’70, perché lo abbiamo associato a questa frase di monsignor Romero, pronunciata durante l’omelia per la morte di padre Rutilio Grande, gesuita, suo amico e collaboratore, assassinato dal regime salvadoregno: “Vogliamo dirvi, fratelli criminali che vi amiamo e che chiediamo il pentimento per i vostri cuori”.
Parole che ci battono sulle tempie, come quelle pronunciate da Rosaria Costa, vedova dell’agente Vito Schifani, il giorno dei funerali del marito, del giudice Falcone e delle altre persone vittime della mafia a Capaci, nel 1992. Anche allora, il 23 maggio.