Willy ucciso dai figli di Suburra, malati di violenza e agonia narcisista


 

L’esile Willy, 21 anni, ucciso di botte a Colleferro voleva fare il cuoco. Il suo sorriso nelle foto che hanno inondato i social fa da contraltare alle immagini dei suoi aggressori. Sguardi da cattivi, pose con addominali scolpiti, tatuaggi in bella mostra e frasi ad effetto in pieno stile Suburra o Gomorra.

È stata messa in evidenza la motivazione razziale o anche la politica con le idee neofasciste del gruppetto di picchiatori ma non basta: c’è una evidente autorappresentazione che viene da modelli ben precisi. Il mito del boss che incute paura, l’agonia narcisista a suon di photoshop si identificano nel fascino di una certa mafiosità, quel potere che si applica con due strumenti: soldi e violenza.

I fratelli Bianchi somigliano ai carabinieri della caserma di Piacenza e fanno pensare alle parole dello psichiatra Vittorino Andreoli: “L’Italia è un paese malato di mente: esibizionisti, individualisti, masochisti, fatalisti”. E se allarghiamo a tutto il Paese quel monologo dei film i Cento Passi su Peppino Impastato, oggi, avremmo le parole adatte per spiegare come muore di botte un ragazzo: “la mafia la vogliamo. Ma non perché ci fa paura, perché ci dà sicurezza, perché ci identifica, perché ci piace e quelli come Willy sono “nuddu mischiato con niente”.

Giuseppe Manzo giornale radio sociale