“Giovinette. Le calciatrici che sfidarono il duce”


È il libro della giornalista Federica Seneghini, che racconta la storia di trenta ragazze tra i 15 e i 20 anni che nel 1933 fondarono la prima squadra di calcio femminile in Italia, contro il sessismo dell’epoca fascista. Gonne e maniche lunghe per dare calci al pallone e partite a porte chiuse: un’avventura di breve durata che merita di essere scoperta.

Una storia che rischiava di tramontare, persa negli almanacchi del calcio e della politica italiana, sepolta in quel ventennio fatto di restrizioni, regole e apparenze. E ora è tornata alla luce grazie al lavoro della giornalista del Corriere della Sera Federica Seneghini che in forma di romanzo la racconta nel libro Giovinette, le calciatrici che sfidarono il duce edito Solferino. Grazie a una minuziosa indagine storica, interviste ai parenti di quelle giocatrici e la consultazione di documenti e archivi si ripercorre il coraggio e l’intraprendenza di Rosetta, Giovanna, Lucchi e le altre durante decenni di discriminazione femminile.

«Tutto doveva essere fatto con moderazione, perché eravamo donne, si intende. E il regime aveva più volte detto che lo sport femminile doveva essere proprio così: moderato». E allora guai a scendere in campo con i pantaloncini: gonne e maniche lunghe per dare i calci al pallone. E una corsa lenta, moderata. Perché sia mai che le futuri madri d’Italia incorrano in infortuni o compromettano i loro organi riproduttivi. A dare il via a questo esperimento di “apertura” in un clima in cui anche i più autorevoli giornali sportivi guardavano con diffidenza al “giuoco del calcio” praticato da donne era stato Leandro Arpinati, il gerarca bolognese dello sport italiano. A capo del Coni e della Figc, Arpinati – appassionato di sport a tutto campo – aveva già aperto le porte alla pallacanestro femminile e ora aveva concesso l’autorizzazione alle “giovinette”. Ma, a patto che le ragazze giocassero a porte chiuse.

Il resto l’avevano fatto loro con la loro intraprendenza – moderata s’intende – e con il passaparola. Dimenticate dai giornali sportivi che se pur aperti avevano definito la diffusione del calcio femminile «non opportuna», le ragazze rilasciano interviste, diffondono comunicati stampa e in poco tempo diventano un caso milanese e nazionale. C’è Rosetta, con i suoi sedici anni e nell’animo il sacro fuoco del calcio. Giovanna, per cui l’avventura della squadra è anche un gesto politico. Marta, saggia e posata ma determinata a combattere per la libertà di giocare. E poi la coraggiosa Zanetti che dà il calcio d’inizio, la stratega Strigaro che scrive ai giornali, la caparbia Lucchi che stenta a vincere l’opposizione paterna. L’11 giugno del 1933 le giovinette riescono a giocare la prima e unica partita di calcio femminile d’Italia. Il loro sogno si scontra con la visione di Achille Storace, successore di Arpinati e fedelissimo del regime che a donne che scorrazzano per campi da calcio preferisce madri dedite a costruire le future generazioni di patrioti.

La squadra viene chiusa e l’impresa di Rosetta e le altre si perde nei campetti di periferie e nella tumultuosa storia italiana che ne seguì. Ma quelli sono anche gli anni di Ondina Valla, la prima donna italiana a vincere un oro olimpico negli 80 metri ostacoli. Erano i giochi di Hitler, quelli di Berlino del 1936. E i gerarchi, i maschilisti, non possono più negare che lo sport femminile esista e abbia un futuro. E proprio a Valla è dedicata una via del comune di Milano. Non sarebbe bello – chiede la giornalista Seneghini che ha ricostruito la vicenda – «che Milano, 90 anni dopo, le ricordasse intitolando loro una strada o un campo sportivo?». In occasione dei mondiali dello scorso anno, il calcio femminile è tornato a far parlare di sé portandosi dietro – 86 anni dopo – ancora le stesse anacronistiche obiezioni. Perché, come ha detto Marco Giani, ricercatore, membro della Società Italiana di Storia dello Sport e autore del saggio che fa da appendice al libro: «In un Paese sessista come l’Italia, il football rimane una questione di genere».