NON CI RESTA CHE MASSIMO

di Giuseppe Manzo

massimo

Massimo Troisi in un ritratto di Antonio Peperna

“Tarantella canzone sole e mandolino: a Napoli si muore a tarallucci e vino”. Così canta Massimo Troisi nel 1978 con i due sodali Arena e De Caro de La Smorfia. Sono i primi passi del ragazzo smilzo da San Giorgio a Cremano, calzamaglia nera e cuore fragile. La provincia partenopea pullula di cantine trasformate in sale teatrali o musicali, è la Napoli underground tra il dramma del colera e quello del terremoto dell’80. Massimo diventa l’artista simbolo di una generazione, capace di ribaltare stereotipi e cliché sul napoletano caciarone tutto sole, pizza e mandolino. Nelle sue labbra strette il dialetto comunica un’ironia dissacrante sui mali della città, la sua comicità è impregnata di una sottile denuncia politica: “i napoletani stanno con l’acqua alla gola: immediatamente si sono presi l’acqua”; “a Napoli servono gli investimenti: ma con un camion quanti disoccupati possono investire?”.

 

La tradizione classica e popolare, da Eduardo a Totò, con lui si fonde in una maschera moderna verso cui tutti dovranno capitolare: da Benigni a Verdone o al grande Mastroianni, tutti restano stregati dal genio Troisi. Il suo volto racconta all’Italia che esiste un altro Sud. Oggi Massimo lo puoi trovare nei volti dei giovani meridionali che gestiscono terreni confiscati, in un calciatore dell’AfroNapoli United o in un ragazzo che recupera gli spazi pubblici abbandonati per fare musica e teatro. Troisi è davvero il “postino” che consegna alle nuove generazioni il sorriso come risposta a chi da sempre minaccia: “Napoli non deve cambiare”. Perché le lacrime sono finite e a tutti noi non ci resta che Massimo, come recita la poesia di Roberto Benigni: “ciò che Moravia disse per il poeta io lo ridico per un pulcinella“.