Megan Rapinoe spiega il problema dei coming out negli sport maschili: “Non si sentono al sicuro”


Campionesse di diritti. Perché non ci sono omosessuali uomini dichiarati nello sport di alto livello? Risponde Megan Rapinoe, calciatrice americana: “È perché non si sentono al sicuro. Sanno che verranno discriminati, esclusi e insultati anche dai tifosi”. Il calcio femminile su queste tematiche è avanti anni luce: le ragazze sono meno sole nei loro coming out, hanno uno spirito più aperto e inclusivo.

Potrà sembrare triviale, ma la presenza di una comunità che ti supporta e che celebra la tua identità in tutte le sue sfaccettature fa un’enorme differenza. Fa 40, si può dire; che è la differenza fra il totale di calciatrici dichiarate agli ultimi mondiali femminili (40) e il totale di calciatori apertamente queer agli ultimi mondiali maschili (0). La matematica, si sa, non mente.

Megan Rapinoe si confronta con Pernille Harder e Magdalena Eriksson sui canali di Sky Sports Football. Perché gli atleti non fanno coming out? Durante l’ultimo episodio di The HangOUT, sui canali di Sky Sports Football, la coppia Pernille Harder e Magda Eriksson dialoga con Megan Rapinoe, confrontandosi su cosa significhi conciliare la professione di calciatrice con l’impegno nelle cause sociali che accomunano le tre donne.

Harder ed Eriksson stanno insieme dal 2014 e hanno quasi dieci anni in meno della collega statunitense. Seguendo i passi di Rapinoe, sono sempre più attive nel rivendicare le istanze della comunità LGBTQIA+ di cui fanno parte. “Tu per noi sei un esempio”, confessano a Rapinoe le due giocatrici del Chelsea, “in campo come nella vita fuori dal campo. Riesci sempre a dire la cosa giusta e sai come esprimerla nel migliore dei modi”.

Si può proprio dire, in effetti, che uno dei grandi pregi di Megan Rapinoe sia la sua capacità di dire le cose come stanno, anche (e soprattutto) quando si tratta di scomode verità. Ritroviamo questo spirito schietto e genuino nelle parole che scambia con Magda e Pernille. Quando le chiedono se abbia qualche consiglio per giovani persone queer che stanno cercando di essere se stesse, ecco la sua risposta: “In realtà vorrei partire da quello che ritengo sia il vero problema. Il problema lo hanno le persone che non sono gay, che non sono LGBTQ. Perché non siamo noi [persone LGBTQ, ndr.] a discriminarci da sole. Non siamo noi a rendere le cose difficili. Noi tentiamo solamente di vivere la nostra vita nel migliore dei modi”.

Rapinoe dunque passa la palla, dirigendo il consiglio non a chi è queer, bensì a tutti gli altri, tutti coloro che fanno parte del mondo dello sport e che hanno un ruolo nel definirne le dinamiche. “Avete la responsabilità di riflettere su ciò che dite”, incalza. “Dovete assicurarvi di creare un ambiente accogliente e inclusivo che permetta alle persone di sentirsi al sicuro”.

Si collega così al mondo del calcio maschile, portandolo come esempio di quanto l’ambiente influisca sulla libertà di fare coming out e vivere serenamente la propria identità. “Ce lo chiedono sempre: perché non ci sono atleti maschi dichiarati negli ambienti sportivi di alto livello? È perché non si sentono al sicuro. Immaginano che verranno discriminati dai tifosi, che verranno cacciati dalla squadra, che saranno colpiti da una pioggia di insulti, e via così“.

E, del resto, come biasimare tali timori? Sono fondati su prove tangibili, evidenti e ripetute negli anni: quanti episodi di discriminazione a sfondo queerfobico si sono verificati nella storia del calcio maschile? Innumerevoli. Sia dal lato dei tifosi, sia nell’ambiente chiuso degli spogliatoi. E questi sono solo la parte visibile dell’iceberg, che lascia ipotizzare un fondo sommerso spaventosamente esteso. Ma ancora: quante volte si sono sentiti insulti razzisti? E se insultano un mio compagno di squadra perché è nero, potrà pensare un calciatore, cosa diranno di me che sono addirittura fr*ocio? Non certo il clima che ti spinge a scendere in campo con la bandiera arcobaleno aspettandoti uno scroscio di applausi e una pioggia di coriandoli e brillantini. E se è vero che alcuni progressi sono stati fatti, se è vero che in molti contesti è presente quantomeno la volontà di dirsi inclusivi, chi garantisce che i comportamenti della squadra, dei tifosi e dell’intero club saranno realmente accoglienti e non giudicanti?

Chi lo garantisce all’affermato (eppur al tempo stesso spaventato) calciatore che teme di buttare all’aria tutta la sua carriera? O al giovane calciatore che sta cercando di guadagnarsi il rispetto dei compagni e che sa che spesso questo concetto viene associato a quello di virilità? Chi assicura loro che il gioco vale la candela?

C’è da ammettere che a Josh Cavallo è andata bene. Con una storia ben diversa dal dramma di Fashanu, Cavallo è il secondo calciatore di una major league a fare coming out mentre ancora professionalmente attivo. Fortunatamente il suo coming out è stato accolto da pubbliche manifestazioni di stima e solidarietà da parte di diversi colleghi. Eppure, il suo resta un caso isolato: in tutto il mondo, non c’è attualmente nessun altro che si senta nelle condizioni di calpestare l’erba di un campo d’élite in quanto calciatore apertamente gay o bisessuale. E questo vuoto, questo silenzio, se vogliamo, parla più di qualsiasi altro dato.

D’altro canto, Rapinoe stessa lo sottolinea in modo molto chiaro: la responsabilità non può cadere solo sulle spalle del singolo calciatore, che già deve sostenere pesi e difficoltà materiali e psicologiche non indifferenti. Deve essere soprattutto dei dirigenti, del club tutto e del resto della squadra. Ed è forse questo il segreto del calcio femminile, che su queste tematiche sembra avanti anni luce: le ragazze sono meno sole nei loro coming out. Hanno una rete di supporto attorno – un maggiore “cameratismo”, lo definisce Rapinoe. Lo spirito più aperto e inclusivo (che nel femminile si è ormai già tradotto in atteggiamenti e pratiche più aperte e inclusive) non è frammentario né superficiale, bensì radicato e interiorizzato da molti fra gli agenti che compongono l’ambiente che circonda le calciatrici.

Potrà sembrare triviale, ma la presenza di una comunità che ti supporta e che celebra la tua identità in tutte le sue sfaccettature fa un’enorme differenza. Fa 40, si può dire; che è la differenza fra il totale di calciatrici dichiarate agli ultimi mondiali femminili (40) e il totale di calciatori apertamente queer agli ultimi mondiali maschili (0). La matematica, si sa, non mente.