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La denuncia della “Campagna Abiti Puliti” in piena emergenza Covid-19: dall’Italia al Myanmar, dalla Cambogia alle Filippine, si fa ancora più precaria la situazione dei lavoratori tessili delle filiere globali, con i grandi marchi che hanno sospeso i pagamenti e scaricato le conseguenze del calo della domanda sui fornitori.

La pandemia di Covid-19 continua a crescere e diffondersi. In questo momento, oltre un terzo della popolazione mondiale è interessato da una qualche forma di lockdown o restrizione dei movimenti per controllare l’espansione del virus. Un’emergenza senza precedenti, ma che allo stesso tempo porta con sé un fattore in comune con tutte le grandi crisi della storia: le conseguenze per le persone più fragili.

Tra le diverse categorie della fascia meno abbiente della società ci sono i lavoratori tessili delle filiere globali. Già nella quotidianità ante-virus costretti a situazioni di vita precarie, a turni di lavoro estenuanti sottopagati e con scarse tutele. Per tutti loro si batte la “Campagna Abiti Puliti”, in contatto con tutte le imprese multinazionali (come i marchi H&M, Tommy Hilfiger, Calvin Klein, Zara) per convincerle a rispettare i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici nei vari stabilimenti di produzione, sia nel sud-est asiatico (vero e proprio polmone della produzione), che nel resto del mondo.

Parliamo di 150 milioni di persone che producono beni per l’America del Nord, per l’Europa e per il Giappone, e di altre decine di milioni impiegati nei servizi. Le testimonianze non arrivano solo dal Bangladesh. Arrivano dalla Cambogia, dall’India, dalle Filippine, dal Myanmar, dallo Sri Lanka, dal Pakistan, dalla Malesia, dall’Indonesia. Ma anche da El Salvador in America Latina, o dall’Italia stessa, che, oltre a essere un paese di consumo, è anche attiva sulla produzione.

Questi lavoratori di tutto il mondo adesso affrontano una crescente insicurezza a causa del Coronavirus. Le fabbriche chiudono per il calo degli ordini e a causa delle misure restrittive imposte dai governi. In particolare i lavoratori sono stati colpiti da tre ondate di questa pandemia: la prima quando la Cina ha smesso di esportare le materie prime necessarie per la produzione di abbigliamento costringendo molte fabbriche nel sud e nel sud-est asiatico a chiudere; La seconda quando il virus è arrivato in Europa e negli Stati Uniti inducendo le aziende della moda ad annullare gli ordini in corso senza pagarli; L’ultima ondata riguarda la diffusione del virus proprio nei Paesi produttori con la conseguente chiusura degli impianti.

In tutti e tre gli scenari la conseguenza diretta è stata univoca: operai mandati a casa senza preavviso né salario. E per quei lavoratori (pochi) che hanno avuto la fortuna di trovare ancora aperto il proprio luogo lavorativo, la produzione è continuata nonostante il significativo rischio per la salute nelle fabbriche affollate. “E’ fondamentale che i marchi in questo momento assolvano i loro obblighi contrattuali e paghino gli ordini effettuati e in molti casi già prodotti – afferma Deborah Lucchetti della “Campagna Abiti Puliti.”

“In questa drammatica situazione – prosegue – è urgente garantire a tutti i lavoratori nelle filiere globali risorse sufficienti a soddisfare i bisogni delle loro famiglie e a sopravvivere alla crisi, a partire dalla corresponsione dei salari e dei benefit dovuti per i mesi in corso. Le imprese multinazionali hanno costruito la loro ricchezza sull’ utilizzo di milioni di lavoratori sottopagati in Paesi dove non sono presenti le infrastrutture di protezione sociale necessarie a tutelare i lavoratori nei momenti di crisi. Questa emergenza deve produrre un cambio strutturale del modello di business, a partire dalla introduzione di meccanismi di regolazione delle filiere globali e di norme vincolanti per le imprese, a tutti i livelli”.

di Pierluigi Lantieri