Quando la famiglia Anania ha calcato il palco dell’Ariston, dentro ho sentito un misto di incredulità e disgusto.
L’immagine della “famiglia più numerosa d’Italia” e di quel padre che invocava continuamente alla provvidenza, allo Spirito Santo e al Signore Gesù mi ha sinceramente turbato, e ci ho messo un po’ ad elaborare queste sensazioni iniziali.
Ho visto tutta la serata inaugurale del Festival di Sanremo come faccio ogni anno, perchè sono convinto che si tratti dello spettacolo pop per eccellenza e che il teatro Ariston, in questi giorni di febbraio, offra una rappresentazione del paese da cui non si può prescindere se si è interessati ai fenomeni sociali e culturali.
Così, mi sono chiesto perchè Sanremo 2015 sia iniziato con questo piglio.
La scelta di Carlo Conti come direttore artistico e presentatore è chiara fin dall’inizio: dopo le due edizioni di Fabio Fazio, rivoluzionarie secondo gli standard del Festival, quest’anno ci vuole “tradizione”.
Ma che cos’è la tradizione?
Nella prima serata di Sanremo 2013, il primo condotto da Fazio, sul palco sono saliti Stefano e Federico, una coppia gay che si è sposata a New York.
I due, riproponendo un video che ha avuto molto successo su youtube, aprivano in diretta televisiva il dibattito sulla condizione delle coppie omosessuali in Italia, esibendo una serie di cartelli esplicativi. “Ci amiamo/Vogliamo sposarci/Ma a New York/Perchè le leggi di questo paese non ce lo lasciano fare” era il mood dell’esibizione.
La famiglia omosessuale e la famiglia devota con sedici figli. Fazio contro Conti.
Quest’anno, avranno pensato alla Rai, rimettiamo le cose al loro posto. Che, si sappia, è questa la famiglia tradizionale. Stravagante e un po’ singolare forse, ma molto religiosa e sopratutto, con un padre e una madre.
Forse è proprio questa è la tradizione evocata da Sanremo 2015, con garbo e con rispetto solo apparenti. Perché sì, l’omosessualità esiste e va rispettata, ma stavolta la sua rappresentazione non deve in nessun modo essere associata alla famiglia.
L’omosessualità quest’anno è raffigurata come una caratteristica bizzarra, un vezzo da artisti.
Può essere gay Tiziano Ferro, il primo dei superospiti di questa edizione (che per inciso, esibendo una voce impeccabile ha impietosamente sottolineato la qualità di molti dei cantanti in gara).
Può essere gay Platinette, che qui sveste gli abiti della drag queen e si presenta come Mauro Coruzzi con una canzone male assortita proprio sull’ambivalenza uomo/donna e sul pregiudizio.
Può essere gay Conchita Wurst, ospite della seconda serata, che per molti non è altro che la donna con la barba.
Ma Fazio o Conti rappresentano due Italie che coesistono e convivono per non cambiare mai. Per un anno ci travestiamo da tolleranti progressisti e mettiamo al centro del dibattito i temi sociali.
L’anno successivo ci stracciamo le vesti e invochiamo la famiglia tradizionale e la divina provvidenza.
Due facce diverse di una medaglia che è sempre la stessa e che va mantenuta com’è, senza troppi stravolgimenti.
E poco importa se dentro ci sono le offese alla diversità camuffate da cabaret (Alessandro Siani contro il bambino in sovrappeso), le battute che non fanno ridere del gruppo Boiler, la patetica reunion di Al Bano e Romina, che si lanciano sguardi di odio ma che cantano una Felicità che entrambi hanno trovato altrove.
O ancora, Biggio e Mandelli, meglio conosciuti come “I soliti idioti”, a mettere sul piatto una comicità volgare e vetusta e allo stesso tempo innocua, indolore, senza troppe conseguenze.
Forse è proprio questo il tema.
Quello che esce dagli schermi è un’Italia ingiallita e sempre uguale a sé stessa, anche se travestita di nuovo, e proprio per questo terribilmente rassicurante.
In una delle ultime puntate di Boris, la serie televisiva che tra il 2007 e il 2010 ha messo alla berlina la televisione, lo spettacolo e l’Italia tutta, c’è una scena che riassume tutto questo alla perfezione.
Alla ricerca disperata di un modo per salvare la fiction “Gli occhi del cuore” e riconquistare l’affetto del pubblico, uno dei tre sceneggiatori ha un’illuminazione. Quello che serve è la locura.
“La tradizione, ma con una bella spruzzata di pazzia. Il peggior conservatorismo che però si tinge di simpatia, di colore, di paillettes. In una parola, Platinette.
Platinette ci assolove da tutti i nostri mali, da tutte le nostre malefatte. Sono cattolico ma sono giovane e vitale perchè mi divertono le minchiate del sabato sera. Ci fa sentire la coscienza a posto, Platinette.
Questa è l’Italia del futuro: un paese di musichette mentre fuori c’è la morte”.