Birdman o l’imprevedibile virtù dell’ignoranza

di Ivano Maiorella

Cinema e sociale si leggono a vicenda. Clara Capponi e Francesca Spano’ firmano due brevi schede: perche’ si’ e perche’ no. Il pluripremiato film di Iñárritu fa discutere, in molti si sentono toccati, non semplicemente sfiorati. Questo è un merito, ma non basta. Ne abbiamo parlato anche nella redazione del Giornale Radio Sociale, nella riunione di martedi scorso.

Perche’ no, di Clara Capponi

Dopo un po’ che te ne stai lì, avvolto ben bene nell’atmosfera sospesa del cinema, capisci subito di trovarti di fronte ad un’opera da maestro: ogni scena, inquadratura, ogni gesto degli attori è sapientemente bilanciato e dosato all’interno di un’architettura perfetta; hai la netta sensazione che il regista abbia immaginato nella sua testa ogni istante di girato.

È questo l’impatto con Birdman, film virtuoso e tecnicamente ineccepibile.

Come in un videogioco, all’inizio sei lì dentro, a cavallo della macchina da presa, che come un drone plana sulla scena e addosso agli attori come se tutto fosse un’unica scena fluida. Ma a un certo punto non basta più; il fatto è che dopo un po’ tutto diventa troppo, prevale lo straniamento fra la ‘forma’ mirabolante e la sostanza debole di un racconto che emoziona poco. Le vicende del protagonista offrono spunti ampi, ampissimi: il rapporto fra finzione e realtà, fra cultura e mainstream, la paura di una società che cannibalizza le emozioni con social media.

La storia intreccia sapientemente diversi livelli narrativi ma non li risolve; Birdman è un film ruffiano, dove il compiacimento della tecnica penalizza una storia che offre scarsi punti di vista e soluzioni scontate, soprattutto nel finale.

Perche’ si‘, di Francesca Spano’

Birdman divide il pubblico, c’è chi dice “si” e chi dice “no”. Io sono assolutamente per il “si” e i quattro Oscar vinti sono senza dubbio meritati.

Un film tecnicamente sublime, un (apparente) unico piano sequenza ,interrotto solo due volte, un montaggio invisibile, impercettibile. Alejandro González Iñàrritu  ti guida tra i corridoi labirintici del retropalco del teatro di Broadway, dove si svolge tutto, metafora della battaglia interiore che i protagonsiti vivono tra l’immagine che hanno di sé e il chi sono veramente.

Mantiene costantemente un perfetto equilibrio tra l’estrema cura dell’immagine e la storia, per niente vuota, una narrazione che ti rende partecipe, ti emoziona, anche nel finale. Assolutamente non didascalico, personalmente prediligo una narrazione poetica, poco espositiva e forse sta proprio qui il perché dico “si” alle quattro statuette.

Un viaggio tra metacinema e metateatro per raccontare le angosce di un vecchio attore che tramite il teatro tenta di uscire dalla propria esistenza, utlizza l’arte per rinascere. Una commedia che parla di Ego.

La pellicola ti inchioda alla poltrona dall’inizio alla fine, ti ritrovi col naso all’insù e a bocca aperta, come quando da bambino rimanevi affascinato da qualcosa.

Un ex supereroe, col costume da uccello, che ormai nessuno più si fila, una protesta verso Hollywood e al mainstream “Papà non sei nessuno, perché non sei su facebook” gli urla in faccia la figlia, anche lei alle prese con la sua batttaglia esistenziale, tra un padre assente che ora cerca di prendersi cura di lei e il tentativo di rimanere “pulita” da droga e alcool che l’hanno portata a entrare e a uscire dai centri di disintossicazione.

Ciliegina sulla torta, una musica diegetica che ti guida, danza insieme alla macchina da presa e lo senti nel suo crescere e decrescere.

Pura genialità e in quanto tale non può essere spiegata.