Arriva la serie sul calcio ambientata a fine ‘800 che esplora le origini dello sport più popolare e amato al mondo attraverso le storie di chi lo ha reso tale. I grandi cambiamenti, con la trasformazione del calcio in un business che da passatempo per gentiluomini diventa spettacolo per un pubblico di massa, incrociano il racconto delle rivoluzioni sociali a cavallo tra due secoli.
Il papà di Downton Abbey Julian Fellowes firma la nuova serie Netflix sul calcio, The English Game, ambientata a fine ‘800. Specialista in costume drama, infatti, Fellowes si è cimentato anche con questa serie in un racconto d’epoca, ambientato nell’800: nell’Inghilterra di fine secolo, due giocatori dall’estrazione sociale molto diversa diventano amici stringendo un legame che sarà decisivo per la trasformazione del calcio in uno sport per il grande pubblico. I grandi cambiamenti nel mondo dello sport – con la trasformazione del calcio in un business che ha bisogno di trasformarsi da passatempo per gentiluomini a spettacolo per un pubblico di massa – incrociano così il racconto delle rivoluzioni sociali a cavallo tra due secoli, tra una nobiltà sempre più decadente e una classe operaia in fermento.
Dietro alle consolle
Gli esport si organizzano. È nata, a Bruxelles, la European Esports Federation: 23 organizzazioni unite per rappresentare i giocatori e le organizzazioni del gioco elettronico nel più generale ambito della politica, dello sport, della società e del panorama mediatico europeo. Oltre che per “costruire una piattaforma per i suoi membri e il movimento per promuovere gli esport come attività sana, sostenibile, inclusiva”
Anche l’Italia ne fa parte attraverso Gec (Giochi elettronici competitivi), che ha aderito all’Eef con l’obiettivo primario di promuovere un’identità continentale per gli sport elettronici. La Eef non nasce come un organo di governo ma più come una sorta di partner moderatore che vuole far convergere federazioni nazionali, portatori di interesse e naturalmente i principali attori, gli ambasciatori dello sport giocato in modalità elettronica. A guidare la federazione, eletto sempre a Bruxelles, dai vari membri (non tutti associabili all’area Ue in realtà, vista la presenza di Israele, Bielorussia, Georgia, ecc) il 31enne tedesco Hans Jagnow, già a capo della federazione tedesca, nota come Esbd, a cui farà da vicepresidente lo slovacco Karol Cagáň. Come riconosce lo stesso Jagnow, tra i temi che la Eef si troverà ad affrontare ci sarà anche quello della gender equality nel campo dei giochi elettronici. Un obiettivo che potrebbe rientrare, a più grandi linee, nella volontà di strutturare e rafforzare il movimento di base degli esport oltre che di armonizzare le varie opportunità che questo settore offre in Europa. E poi, come per ogni federazione sportiva che si rispetti, spazio anche al teema culturale, con la promozione del fair play, della diversity, la lotta contro l’hate speech e ad altri comportamenti che possono danneggiare tutto l’ecosistema.
Anche l’Italia attraverso la Gec farà la sua parte: come sottolineato dal ceo Giorgio Pica “vogliamo assumere un ruolo sempre più internazionale, per promuovere le attività italiane all’estero, favorire l’accesso al mercato italiano degli operatori stranieri, sviluppare una linea comune di crescita insieme agli altri paesi dell’Unione Europea”.
Passato e futuro
Il playground di Montedonzelli, campetto di basket del quartiere Arenella, a Napoli, dopo tre anni di abbandono e degrado è stato riqualificato grazie ai ragazzi della zona e a 150 volontari che, tra una partita e l’altra, hanno pulito e verniciato gli spazi. Anche tante realtà sportive locali hanno finanziato l’operazione e il terreno di gioco è stato dedicato a Kobe Bryant.
Dall’alto riempie la scritta KOBE il rettangolo di gioco del playground, nei due colori giallo e viola, quelli della squadra di basket Los Angeles Lakers, in cui ha militato fino all’ultimo Kobe Bryant, il cestista americano morto in un incidente il 26 gennaio 2020. Tutto intorno, i murales di Jorit e Luca Carnevale rappresentano la star del basket in tutto il suo splendore.
Il playground Kobe Memorial Park, di recente rimesso a nuovo a Napoli, è un esempio di cooperazione tra sport e sociale, messa in atto per omaggiare un grande sportivo e ridare alla città un luogo di aggregazione, di forte connotazione sociale.
Sui muri laterali, Jorit ha firmato il murales del “black mamba” del basket, immortalato nel suo “gioco”, con lo sguardo che punta al campo come un’incitazione a “non mollare” perché “qui ci sono io”, mentre Luca Carnevale ha realizzato un’immagine di Bryant versione supereroe.
L’obiettivo di questo progetto è stato non solo realizzare un campo da basket nuovo, ma celebrare la passione sportiva, l’unione sociale, l’integrazione e l’amicizia, nel nome di un grande campione internazionale. In occasione del match Italia – Russia disputatosi a Napoli il 20 febbraio, primo impegno per le qualificazioni agli Europei del 2021, gli Azzurri hanno fatto visita al Kobe Memorial Park: un omaggio doveroso del mondo del basket, considerando il legame che univa Kobe al nostro Paese, dove aveva giocato per diversi anni prima di entrare negli LA Lakers. Un pomeriggio di festa, con l’inno di Mameli e tantissimi ragazzi che hanno avuto l’occasione di fare qualche tiro insieme ai campioni nazionali.
La strada è di tutti
Oggi pomeriggio a Siena un incontro pubblico organizzato dalle associazioni ciclistiche. Il servizio di Elena Fiorani
“La strada è di tutti. A partire dal più fragile”, questo il titolo dell’incontro organizzato da diverse realtà del territorio senese, con il patrocinio dell’Amministrazione comunale di Siena. In questa occasione verrà proiettato il docufilm “Gambe”, realizzato dalla Fondazione Michele Scarponi, partner dell’iniziativa, in cui si racconta come la strada possa essere dei bambini, delle persone con disabilità, dei pedoni e quindi anche dei ciclisti. L’obiettivo è la promozione della cultura della sicurezza per tutti, la condivisione dei diritti, il rispetto reciproco, con il fine di avere strade in cui tutti possano muoversi in assoluta autonomia e libertà. Sulle strade italiane muore un ciclista ogni 35 ore, infatti l’Italia, tra i paesi europei, è quello meno sicuro per chi va in bici.
Dal Kenya all’Argentina
È l’obiettivo di due campioni di basket italiani che vogliono portare sport e diritti ai bambini più poveri del mondo. Con l’associazione Slums dunk hanno legato la pallacanestro a parità di genere, uguaglianza, educazione, per i bambini delle baraccopoli di Nairobi ed ora sono attivi anche in Zambia. Il prossimo canestro sarà raggiungere con il loro messaggio i giovani argentini.
Dopo un viaggio in Kenya nel 2012, Bruno Cerella e Tommaso Marino avevano dato vita a Slums Dunk Onlus, un’organizzazione nata per portare nelle zone degradate dell’Africa il basket e tutti i benefici che lo sport porta con sé: diritti, parità di genere, uguaglianza, educazione, felicità, educazione. E un impegno che ora guarda anche più lontano: in Argentina. D’altronde loro sul campo sono tutti i giorni: classe 1986, il primo è un cestista italo-argentino attualmente in forze al Reyer Venezia Mestre in serieAe vincitore dell’ultimo campionato italiano; il secondo è il capitano de L’OraSì Ravenna, che gioca in serie A2. La onlus nasce da un gioco di parole in cui il termine «slam dunk» (schiacciata nel basket, ndr) viene sostituito da «slum», il termine con cui sono conosciute le baraccopoli delle ex colonie britanniche dell’Africa.
Nel 2014 è stato costruito il primo campo di pallacanestro nella baraccopoli di Mathare a Nairobi (poi intitolato a Matteo «Teo» Bertolazzi, cestista morto nel 2013 a seguito di una leucemia, e amico di Cerella e Marino, ndr) ed è stata attivata una scuola di minibasket: proprio qui, si stima vivano 95mila persone in 1,5 chilometri quadrati, con il 50 per cento della popolazione composta da giovani con meno di 18 anni con accesso limitato ai servizi primari come acqua, elettricità e servizi igienici. Questo è stato solo l’inizio: ad oggi Slums Dunk coinvolge quasi 500 bambini divisi in quattro «basketball academy», in Kenya e Zambia.
Il progetto ha un impatto molto forte: «Lo sport è solo il tramite per insegnare a questi ragazzi le regole del gruppo, le responsabilità. Tramite lo sport tanti hanno avuto la possibilità di andare a scuola fuori dalla baraccopoli. E questo vuole dire istruzione, poter mangiare, poter diventare una risorsa per la società in futuro, e non un peso come spesso capita per chi rimane nelle baraccopoli». Perché un campione sente a un certo punto il bisogno di mettere «in campo» le sue doti per gli altri? «Siamo stati fortunati a vivere dove siamo ora, con tutti i confort che questo comporta. Sapere che possiamo contribuire a cambiare la vita di qualcuno che è nato in uno slum di Nairobi è una sensazione impagabile, che lo sport da solo, quello che ci impegna come professionisti, non può dare», spiega.
L’idea, ora, è di far canestro oltre confine, arrivando fino in Argentina, terra natale di Bruno. Tutti i bambini nascono con dei sogni, in Italia come in Kenya: «Certo, siamo solo una piccola realtà,ma anche noi possiamo fare molto per vincere la battaglia contro la discriminazione nello sport», conclude Tommaso. Quando ancora oggi «assistiamo a questi episodi in Italia, vediamo insultare un ragazzo in un campo di calcio o di basket, dobbiamo sapere che una volta quello era un bambino che sognava un futuro in un campo lontano dall’Africa, mentre giocava a calcio in mezzo ai rifiuti con un pallone fatto di carta e magari senza neppure l’opportunità di mangiare».
Ripensare le città
Sono 570.000 euro i fondi del 5 per mille che il Politecnico di Milano investirà in 7 progetti di ricerca dedicati a sport e inclusione sociale, selezionati nell’ambito della competizione annuale Polisocial Award promossa dal programma di responsabilità sociale dell’ateneo. Lo sport diventa una leva per la progettazione, il recupero e il ripensamento delle attrezzature e di intere parti di città.
Tutti i progetti sono stati selezionati nell’ambito della competizione annuale Polisocial Award promossa da Polisocial, il programma di responsabilità sociale del Politecnico di Milano. Lo sport è stato scelto quest’anno come tema chiave del Polisocial Award per la sua forte valenza sociale: se la ricerca in campo tecnologico contribuisce infatti a fare dell’attività sportiva una potente leva per l’inclusione di soggetti fisicamente svantaggiati, lo sport è più in generale un terreno straordinario per contrastare fenomeni di disagio giovanile, favorire il dialogo tra culture e promuovere la riqualificazione sociale e ambientale dei quartieri, così come un tema fondamentale per la progettazione, il recupero e il ripensamento delle attrezzature e di intere parti di città.
Uno di questi si chiama FIVE of Olympics’ FLAG e studierà le possibili implicazioni delle Olimpiadi invernali 2026 sulla città e sui cittadini, definendo degli indirizzi progettuali e operativi per il rafforzamento del valore sociale e territoriale del grande evento. Vari sono invece i contenuti degli altri 6 progetti premiati: una parete d’arrampicata sensorizzata per la riabilitazione dei bambini, lo sport in carcere come strumento di reinserimento sociale, nuove ortesi per aiutare i bambini a praticare ginnastica a scuola, la riattivazione di una rete di infrastrutture sportive degli oratori milanesi, una piastra attrezzata per street sport, la gestione, da parte di categorie socialmente deboli, di strutture per il turismo sportivo itinerante.
Il calcio e il suo mito
A Firenze, dal 27 al 29 marzo, una tre giorni di tornei, incontri, mostre e cimeli. Arriva la festa del calcio di ‘Totaalvoetbal’ che si rivolge ad appassionati e famiglie, con sette spazi a tema per un programma ricco di iniziative legate al mondo del calcio. Non mancherà il calcio giocato, quello femminile, quello dei gonfaloni di Firenze e di squadre straordinariamente “diverse”.
Passaggi buoni
Il Pescara Calcio è il vincitore della seconda edizione del premio “Sport e diritti umani”, promosso da Amnesty International Italia e Sport4Society. La giuria, presieduta dal giornalista Riccardo Cucchi, ha premiato la squadra abruzzese “per il coraggio di esprimere un messaggio profondo contro ogni discriminazione, valorizzando i principi dello sport che si fondano sulla lealtà e sul rispetto dell’avversario”. Fuori dal campo di gioco l’impegno antirazzista del Pescara si manifesta anche negli ampi spazi della rete, dove ricorre sempre più un linguaggio di disprezzo e incitamento all’odio. Per combattere questo fenomeno, chiamato “hate speech”, il Delfino utilizza tutti i suoi canali social denunciando gli intolleranti da tastiera che interagiscono nei suoi profili. È accaduto, ad esempio, a fine dicembre quando l’ex biancazzurro José Pepin Machin, calciatore della Guinea Equatoriale, è stato vittima di commenti razzisti su Instagram (“vai a giocare a bocce scimmia”, ndr) dopo aver fallito una palla gol nel match contro il Chievo Verona. Tale espressione è stata subito segnalata dal Pescara che condividendo il post su Twitter ha così commentato: “È inaccettabile, e faremo del nostro meglio per tenere questo individuo lontano dai social e non solo. No al razzismo“. Negli scorsi mesi, inoltre, altre azioni del genere hanno fatto il giro del web. Tra queste anche il cartellino rosso mostrato ad un “tifoso” che aveva intimato aveva intimato al profilo Twitter del club di smetterla di parlare di razzismo: “Basta con questa storia del razzismo vi ho sempre sostenuto ma direi che è ora di finirla voi e quei comunisti del caxxo, state per perdere un tifoso fate voi“. Immediata la presa di posizione degli abruzzesi: “Facciamo noi? Bene, signore e signori, Andrea non è più un nostro tifoso #NoAlRazzismo #NoToRacism”. Una risposta ironica e intelligente per emarginare chi continua a trattare il razzismo come un fatto marginale e banale. E il Pescara continua a giocare la sua partita contro ogni discriminazione in tutti i terreni possibili. A gennaio di quest’anno ha aderito alla carta della responsabilità dello sport promossa da Gariwo, onlus milanese impegnata nella lotta alla xenofobia e all’antirazzismo, insieme a numerosi campioni olimpici di tutte le discipline sportive. Sottoscrivendo il documento la società biancoazzurra ha aggiunto che “con questo spirito la squadra continuerà a dimostrare il suo impegno nella lotta al razzismo, all’intolleranza, ad ogni forma di prevaricazione nei confronti di ogni essere umano”.
Grazie a queste e molte altre azioni il Pescara calcio ha vinto la seconda edizione del Premio che mira a segnalare all’opinione pubblica un/una atleta, società od organizzazione sportiva attiva in favore dei diritti umani.
La giuria, composta anche da Vittorio Di Trapani (Segretario generale UsigRai), Angelo Mangiante (Sky Sport), Jacopo Tognon (docente di Diritto dello sport all’università di Padova), Luca Corsolini (vicepresidente di Sport4society) e Riccardo Noury (portavoce di Amnesty International Italia), ha voluto menzionare altre candidature che hanno ottenuto voti, quali il calciatore Giorgio Chiellini e le squadre FC Internazionale e AS Roma. “Siamo contenti per la qualità e la quantità delle candidature ricevute attraverso segnalazioni sul sito del premio e desideriamo manifestare il più grande apprezzamento anche nei confronti delle tante realtà del mondo non professionistico che quotidianamente s’impegnano contro la discriminazione”, ha dichiarato Umberto Musumeci, presidente di Sport4Society.
“L’azione svolta dal Pescara Calcio contro la discriminazione – afferma invece il portavoce di Amnesty International Riccardo Noury – è stata di stimolo a ulteriori iniziative, basti pensare ai provvedimenti adottati dalla squadra del Cagliari nei confronti di alcuni tifosi: un’ulteriore conferma di quanto lo sport può fare in favore dei diritti umani e nel contrasto all’odio”.
di Pierluigi Lantieri
Riparte la Clericus Cup
Presentata ieri a Roma la XIV edizione del mondiale calcistico della Chiesa promosso dal Centro sportivo italiano. Il servizio di Elena Fiorani
Il Mondiale di calcio pontificio quest’anno è cominciato con una messa cui hanno preso parte le sedici squadre che scenderanno in campo dal 7 marzo al 30 maggio, con 330 calciatori di 70 diverse nazionalità. Il Messico è lo Stato più rappresentato con 31 giocatori in 5 squadre. Lo slogan di questa edizione è “Pray and play”, prega e gioca. Per monsignor Sánchez de Toca, sottosegretario del Pontificio Consiglio della cultura: “Lo sport è un fenomeno culturale del nostro tempo. Alcuni lo vivono come una religione, ma è certo un fenomeno culturale di massa – ha detto – Ma più importante di questa dimensione culturale, da proteggere dalle degenerazioni che circondano e minacciano il mondo dello sport, come violenza, razzismo, mercificazione, abusi, doping, partite truccate, è la sua dimensione educativa”.
Un gol per i diritti
In Arabia Saudita nasce il primo campionato di calcio femminile. Sono passati solo due anni da quando le donne del Paese hanno avuto libero accesso agli stadi per assistere a una partita ed ora è stata lanciata la Women’s Football League, che avrà un montepremi di circa 130 mila euro e, nella prima stagione, si svolgerà a Riyad, Gedda e Dammam, con possibilità in futuro di coinvolgere altre città.
Una svolta significativa per il Regno del golfo, dove in occasione di un evento di lancio nella capitale Riyad è stato inaugurato il nuovo torneo, la Women’s Football League (WFL). La WFL sarà caratterizzata da turni preliminari, che si svolgeranno nelle tre città, per costituire le squadre campioni regionali. I team vincitori si qualificheranno a una competizione a eliminazione diretta, la WFL Champions Cup, che determinerà il campione nazionale.
Come evidenzia la Bbc online, la creazione di una lega calcio femminile è l’ultima delle riforme volute dal principe Mohammed bin Salman. “Il lancio della lega femminile rafforza la partecipazione delle donne allo sport a livello comunitario e darà un maggiore riconoscimento per i risultati sportivi delle donne”, afferma una nota di Saudi Sports. Sicuramente un passo avanti verso la parità di genere in un Paese che in tal senso ha ricevuto non pochi richiami e solleciti in ambito internazionale. “L’inizio della lega di calcio femminile saudita rappresenta un ulteriore grande passo in avanti per il futuro del nostro Paese, della nostra salute, della nostra gioventù e delle nostre ambizioni di vedere ogni atleta essere riconosciuta e sviluppata al massimo delle sue capacità”, ha dichiarato il principe Khaled bin Alwaleed bin Talal Al Saud, presidente della Saudi Sports for All Federation (SFA), attivo negli ultimi anni per promuovere attività sportive per atleti di ambo i sessi.
L’Arabia Saudita non ha mai avuto una nazionale di calcio competere per i Mondiali femminili, sebbene una squadra femminile abbia rappresentato il Paese in una competizione di futsal regionale lo scorso anno. Uno dei motivi per cui il Regno ha resistito alle richieste di consentire alle donne di competere a livello internazionale è stato il divieto di hijab imposto dalla Fifa nel 2007. Tuttavia, tale divieto è stato poi revocato nel 2012.