Imprese sociali e associazioni si mobilitano per l’economia non profit. Il servizio è di Giuseppe Manzo.
Non fermateci, ci siamo. Proseguono le campagne social del terzo settore che però non si ferma alla rivendicazione di fronte allo scenario di crisi economica più grave della Italia repubblicana. Arrivano da più parti le proposte rivolte al governo su come affrontare la difesa e la rinascita del mondo non profit, soprattutto per difendere i 500mila occupati delle imprese sociali e complessivamente 1 milione di lavoratori nel terzo settore. “Proroghe, stop a gare al ribasso e coprogettazione” è quello che chiede Gianfranco Marocchi, che dopo l’esperienza come direttore della rivista Welfare Oggi, da poco (oltre che vicedirettore di welforum.it) è nel gruppo di direzione della rivista Impresa sociale. Anche la base della cooperazione sociale rivolge un appello firmato da centinaia di cooperatori e dirigenti chiede la tutela dei lavoratori del welfare e di quelli svantaggiati, oltre al sostegno finanziario per la fase 2. Parallelamente l’Alleanza delle cooperative scrive ai vertici dell’Unione europea chiedendo un’Europa “cooperativa” perché il sogno europeo possa ancora continuare.
Salvatele
Proroga dei contratti, tutela degli operatori sociali e dei lavoratori svantaggiati, sostegno finanziario e fiscale, moratoria degli appalti. Sono alcune delle richieste contenute in un appello a favore delle 20 mila imprese sociali che contano mezzo milione di occupati: tra i primi firmatari decine di cooperatori sociali da tutta Italia sulla piattaforma change.org.
Campi regolari
Le organizzazioni della campagna “Ero Straniero” sono soddisfatte a metà per la bozza del decreto che regolarizza i braccianti migranti: “Va finalmente incontro alla richiesta, che da tempo rivolgiamo al governo. Ma un provvedimento limitato nel tempo e rivolto solo a lavoratori agricoli non intacca il grosso dell’irregolarità, che è molto più vasta”. Lo aveva ricordato di recente Filippo Miraglia dell’Arci. Ascoltiamolo. (sonoro)
Cambiare rotta
L’osservatorio “Mutamenti Sociali in Atto-Covid 19” di Cnr e Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali (Irpps) realizzato in collaborazione con L’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv) e Fondazione Movimento Bambino Onlus ha realizzato un sondaggio in cui si evince che in Italia, circa 4 persone su 10 prevedono di andare incontro a gravi perdite economiche, più di una su 10 di perdere il lavoro o la propria attività, e una su 5 di finire in cassa integrazione.
Moratoria
Una buona notizia per la parte più debole del mondo. Il G20 ha accolto la proposta di una sospensione temporanea dei pagamenti a servizio del debito dei Paesi più poveri. Ne danno notizia i ministri finanziari e i governatori che si sono riuniti virtualmente sotto la presidenza di turno dell’Arabia Saudita. Lo stop dei pagamenti inizierà il primo di maggio e terminerà con la fine del 2020, ma si parla anche di una proroga per l’anno successivo. La misura riguarda 76 Paesi, di cui 40 dell’Africa Sub–Sahariana.
Made in Italy
Questa la richiesta degli italiani in un sondaggio Swg-Legacoop. Il servizio è di Giuseppe Manzo.
Oltre l’80 per cento degli italiani considera importante acquistare solo prodotti made in Italy per sostenere la nostra economia in questa fase di grande difficoltà legata all’emergenza Covid-19. Il dato emerge dalle risposte ad un sondaggio condotto, alla fine della scorsa settimana, nell’ambito dell’Osservatorio Coronavirus nato dalla collaborazione tra SWG e Area Studi Legacoop per testare opinioni e percezioni della popolazione di fronte ai problemi determinati dall’emergenza in corso. L’importanza dell’acquisto di soli prodotti made in Italy è stata espressa dall’82% del campione, con la percentuale più alta (86%) registrata nel ceto medio, seguito a ruota dal ceto medio-basso (82%) e, a maggiore distanza, dal “ceto popolare” (72%). In proposito il Presidente di Legacoop Mauro Lusetti, ha commentato: “La richiesta di sostegno ai prodotti delle filiere del made in Italy che sale dall’opinione pubblica è univoca. In questa fase di emergenza drammatica è evidente che i cittadini, che sono sia consumatori sia lavoratori, percepiscono il rischio di un arretramento del Paese ma pure le possibili risposte”
Parola di Jorge
“Forse è giunto il momento di pensare a una forma di retribuzione universale di base, un salario che sia in grado di garantire e realizzare quello slogan così umano e cristiano: nessun lavoratore senza diritti”. Lo chiede Papa Francesco nella lettera ai movimenti popolari e sociali.
Per chi resta indietro
“L’appello pubblicato ieri sulla stampa va nella direzione sbagliata. Espropriare il patrimonio delle Fondazioni, significa distrarlo da ciò di cui c’è maggiormente bisogno: prendersi cura di chi soffre, è povero o emarginato.” Lo dichiara Claudia Fiaschi, portavoce nazionale del Forum Terzo Settore in merito al ruolo ricoperto in queste settimane dalle Fondazioni bancarie per aiutare a fronteggiare l’emergenza Corona virus.
Scaricabarile
La denuncia della “Campagna Abiti Puliti” in piena emergenza Covid-19: dall’Italia al Myanmar, dalla Cambogia alle Filippine, si fa ancora più precaria la situazione dei lavoratori tessili delle filiere globali, con i grandi marchi che hanno sospeso i pagamenti e scaricato le conseguenze del calo della domanda sui fornitori.
La pandemia di Covid-19 continua a crescere e diffondersi. In questo momento, oltre un terzo della popolazione mondiale è interessato da una qualche forma di lockdown o restrizione dei movimenti per controllare l’espansione del virus. Un’emergenza senza precedenti, ma che allo stesso tempo porta con sé un fattore in comune con tutte le grandi crisi della storia: le conseguenze per le persone più fragili.
Tra le diverse categorie della fascia meno abbiente della società ci sono i lavoratori tessili delle filiere globali. Già nella quotidianità ante-virus costretti a situazioni di vita precarie, a turni di lavoro estenuanti sottopagati e con scarse tutele. Per tutti loro si batte la “Campagna Abiti Puliti”, in contatto con tutte le imprese multinazionali (come i marchi H&M, Tommy Hilfiger, Calvin Klein, Zara) per convincerle a rispettare i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici nei vari stabilimenti di produzione, sia nel sud-est asiatico (vero e proprio polmone della produzione), che nel resto del mondo.
Parliamo di 150 milioni di persone che producono beni per l’America del Nord, per l’Europa e per il Giappone, e di altre decine di milioni impiegati nei servizi. Le testimonianze non arrivano solo dal Bangladesh. Arrivano dalla Cambogia, dall’India, dalle Filippine, dal Myanmar, dallo Sri Lanka, dal Pakistan, dalla Malesia, dall’Indonesia. Ma anche da El Salvador in America Latina, o dall’Italia stessa, che, oltre a essere un paese di consumo, è anche attiva sulla produzione.
Questi lavoratori di tutto il mondo adesso affrontano una crescente insicurezza a causa del Coronavirus. Le fabbriche chiudono per il calo degli ordini e a causa delle misure restrittive imposte dai governi. In particolare i lavoratori sono stati colpiti da tre ondate di questa pandemia: la prima quando la Cina ha smesso di esportare le materie prime necessarie per la produzione di abbigliamento costringendo molte fabbriche nel sud e nel sud-est asiatico a chiudere; La seconda quando il virus è arrivato in Europa e negli Stati Uniti inducendo le aziende della moda ad annullare gli ordini in corso senza pagarli; L’ultima ondata riguarda la diffusione del virus proprio nei Paesi produttori con la conseguente chiusura degli impianti.
In tutti e tre gli scenari la conseguenza diretta è stata univoca: operai mandati a casa senza preavviso né salario. E per quei lavoratori (pochi) che hanno avuto la fortuna di trovare ancora aperto il proprio luogo lavorativo, la produzione è continuata nonostante il significativo rischio per la salute nelle fabbriche affollate. “E’ fondamentale che i marchi in questo momento assolvano i loro obblighi contrattuali e paghino gli ordini effettuati e in molti casi già prodotti – afferma Deborah Lucchetti della “Campagna Abiti Puliti.”
“In questa drammatica situazione – prosegue – è urgente garantire a tutti i lavoratori nelle filiere globali risorse sufficienti a soddisfare i bisogni delle loro famiglie e a sopravvivere alla crisi, a partire dalla corresponsione dei salari e dei benefit dovuti per i mesi in corso. Le imprese multinazionali hanno costruito la loro ricchezza sull’ utilizzo di milioni di lavoratori sottopagati in Paesi dove non sono presenti le infrastrutture di protezione sociale necessarie a tutelare i lavoratori nei momenti di crisi. Questa emergenza deve produrre un cambio strutturale del modello di business, a partire dalla introduzione di meccanismi di regolazione delle filiere globali e di norme vincolanti per le imprese, a tutti i livelli”.
di Pierluigi Lantieri
A tutto smart working
In un sondaggio le voci dei lavoratori. Il servizio di Giuseppe Manzo.
“È necessario un cambiamento culturale, con maggior fiducia reciproca tra datori e lavoratori”. Occorre “lavorare sulla dirigenza pubblica e privata per cambiare l’atteggiamento negativo che, purtroppo, e’ ancora diffuso”. Non è un caso che oltre l’80% degli intervistati, nel sondaggio proposto dall’agenzia Dire sullo smart working, dichiari di “lavorare alla stessa maniera, se non di più del solito”. Dopo oltre un mese di lockdown l’analisi condotta dalla Dire presenta i consigli raccolti tra i lavoratori italiani per migliorare le prestazioni ‘da casa’. Su 275 intervistati l’86% “dichiara di volere che l’azienda in futuro incentivi alcune ore in modalita’ ‘agile'”. Oltre 8 partecipanti su 10, inoltre, ritengono necessario per il futuro “corsi di formazione aziendale sulle piattaforme di lavoro condivise e gli strumenti che la tecnologia offre”. Il 40% ammette che non gli e’ stato “indicato quali siano i reali orari di lavoro, adeguandosi, così, agli orari svolti in azienda pre lockdown”. Più di 1 italiano su 3, infine, “percepisce di lavorare di più del solito”, mentre la metà dei partecipanti sentono invece “di lavorare alla stessa maniera”.