Caso Ilaria Alpi, la dignità del giornalismo insegue la giustizia

di Giovanna Carnevale

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Ilaria_AlpiIl 13 gennaio la Corte d’appello di Perugia ha ammesso l’istanza di revisione del processo a carico di Hashi Omar Assan, il cittadino somalo colpevole, secondo la giustizia italiana, del duplice omicidio della giornalista del Tg3 Ilaria Alpi e dell’operatore Miran Hrovatin. Entrambi sono morti il 20 marzo 1994 a Mogadiscio, dove erano andati per seguire la guerra civile somala e per indagare sul traffico di armi e rifiuti tossici. Assan ha già scontato sedici dei ventisei anni di carcere a cui è stato condannato, ed è attualmente affidato ai servizi sociali.
Dunque il caso Alpi-Hrovatin si riapre nuovamente. O forse sarebbe meglio dire che si apre veramente per la prima volta, perché a distanza di ventidue anni la verità sui responsabili del duplice omicidio non è mai arrivata, né la si è cercata davvero. E se oggi si intravede una speranza è anche grazie a giornalisti che onorano la propria professione; esattamente come faceva Ilaria Alpi, che è morta nel dare dignità al giornalismo.
È stata infatti un’intervista realizzata da un’inviata di “Chi l’ha visto?” a portare, nel febbraio 2015, nuovi elementi sul caso. Ahmed Ali Rage soprannominato Jelle, l’uomo introvabile per la giustizia italiana, colui che indicò Assan come responsabile dell’omicidio di Alpi e Hrovatin, è stato rintracciato dal programma televisivo. Jelle non si è mai presentato a deporre al processo ed è fuggito all’estero. “L’uomo in carcere è innocente”, ha rivelato a febbraio alla trasmissione di Rai3, mentre, secondo una nota del programma, avrebbe anche dichiarato che “gli italiani avevano fretta di chiudere il caso, e gli hanno promesso denaro in cambio di una testimonianza al processo: doveva accusare un somalo del duplice omicidio”.
“Ora sappiamo che Ilaria è morta per un omicidio concordato”, ha detto dopo queste rivelazioni la madre di Ilaria, Luciana Alpi, che non ha mai creduto alla colpevolezza di Assan. “Tutte le nostre forze di sicurezza, dalla polizia ai carabinieri, alla Digos, non sono stati all’altezza di farci conoscere la verità”. Non sono stati all’altezza oppure non hanno voluto, perché già nel 2006, ad esempio, le autorità italiane erano in possesso, grazie ai dati forniti dall’Interpol, di molti elementi per trovare Jelle.
Ma nell’indagine sul traffico di armi e rifiuti tossici illegali in Somalia, Ilaria aveva probabilmente scoperto alcuni collegamenti anche con l’esercito e altre istituzioni italiane. Verità indicibili, pericolose se fossero arrivate all’opinione pubblica. E non solo quella nazionale, perché altre ricostruzioni sulla vicenda Alpi-Hrovatin vedono il coinvolgimento della Cia, di un traffico di rifiuti radioattivi e, stando alla docu-fiction mandata in onda da Rai3 “Ilaria Alpi. L’ultimo viaggio”, anche di un carico di armi statunitensi destinato alla Croazia durante la guerra contro la Jugoslavia.
Quello che è certo è che Ilaria poneva domande scomode, poiché giuste e coraggiose. Ma sono molti e troppo importanti gli interessi che superano quello di due vite umane.
Il caso Alpi-Hrovatin, finora, ha raccontato di una doppia non-equivalenza: come la verità non è necessariamente giusta, così la giustizia non corrisponde sempre alla verità. Forse oggi i tempi sono maturi per cambiare almeno la seconda.