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“Fatemi uscire”


È l’appello lanciato da Patrick Zaky, lo studente detenuto in Egitto dall’8 febbraio con l’accusa di propaganda sovversiva su Facebook. La sua custodia cautelare in carcere è già stata rinnovata per due volte: l’udienza che avrebbe dovuto decidere il suo futuro è stata rinviata lunedì scorso a causa del coronavirus.

“Fatemi uscire”: un grido di rabbia che ha oltrepassato le mura della prigione di Tora al Cairo, dove Patrik George Zaky è recluso dal 5 marzo scorso. Sin da subito sulle vicende che hanno visto protagonista il giovane egiziano si è adombrato lo spettro di un nuovo caso Regeni. Purtroppo da oltre un mese questo brutto presagio si avvicina sempre più alla realtà. Appaiono insufficienti le numerose iniziative messe in campo per chiedere l’immediato rilascio dello studente: dai cortei cittadini agli appelli raccolti e sottoscritti da molti istituti universitari. Nonostante il caso Zaky sia immediatamente balzato al centro del dibattito mediatico la situazione è ben lontana da una soluzione. In testa alle associazioni che hanno sposato la causa dell’attivista c’è Amnesty International. L’organizzazione umanitaria raccoglie sul proprio sito internet Italiano tutti gli aggiornamenti in merito alla vicenda. Inoltre è la stessa Onlus, da sempre in prima linea sul fronte della tutela dei diritti umani, che già in passato attraverso un rapporto sugli abusi di potere del governo egiziano aveva denunciato uno “Stato d’eccezione permanente” (titolo del documento reso pubblico a fine novembre). In esso Amnesty accusa la Procura suprema per la sicurezza dello stato egiziano– responsabile delle indagini sulle minacce alla sicurezza nazionale – di abusare regolarmente delle norme antiterrorismo per annullare le garanzie sul giusto processo e perseguire migliaia di persone che hanno criticato il governo in modo pacifico. Ampliando il concetto di atto terroristico anche alle proteste nonviolente, ai post sui social media e alle legittime attività politiche la Procura suprema ha il potere di reprimere qualsivoglia forma di opposizione. È già accaduto in numerosi casi per cancellare la libertà di manifestazione del pensiero ad opera di attivisti, avvocati, giornalisti, blogger, esponenti politici. Adesso tocca a Patrik Zaky, che dal 22 febbraio si trova dentro il tunnel della detenzione preventiva rinnovabile ogni quindici giorni per “supplemento d’indagine”. Un marchingegno giuridico escogitato dall’Egitto per logorare il dissenso del presunto terrorista. Settimane, mesi e persino anni, senza interrogatori, senza garanzie costituzionalmente previste. Alla fine, nel migliore dei casi arriva un tardivo proscioglimento, nel peggiore un processo. E per i reati che gli sono contestati, Zaky rischia l’ergastolo. Il suo calvario tra le strutture detentive dell’Egitto ha origine la mattina del 7 febbraio, quando lo studente del master sugli Studi di Genere e sulle Donne dell’Alma Mater di Bologna è rientrato nel suo Paese. Atterrato nella capitale egiziana Zaky è stato accolto dagli agenti dell’Agenzia di sicurezza nazionale (NSA), i quali lo hanno arrestato, tenuto bendato e ammanettato per diciassette ore durante il suo interrogatorio all’aeroporto. Sono i primi momenti di dolore per il ragazzo che nel corso delle domande poste dagli ufficiali sarebbe stato picchiato e torturato. Il giorno successivo viene trasferito in un istituto di pena nei pressi di Al-Monsoura con un carico di cinque capi di accusa: minaccia alla sicurezza nazionale, diffusione di notizie false, sovversione, incitamento a manifestazione illegale e propaganda per terrorismo. Ma dopo soli due giorni, il 10 febbraio, lo studente dell’Università bolognese è costretto nuovamente al cambio di cella. È la volta della struttura di Talkha che ospiterà Zaky in detenzione preventiva fino al 22 febbraio. Nella stessa data i giudici del tribunale di Mansoura rigettano la richiesta di scarcerazione dei legali e confermano lo stato di detenzione per ulteriori quindici giorni. Il giovane trascorrerà questo tempo prima nella prigione di Mansoura, poi nel penitenziario di Tora, dove si trova attualmente dopo che ad inizio mese il tribunale del Cairo ha rinnovato il provvedimento. La prossima udienza si sarebbe dovuta tenere il 21 marzo, ma a causa dell’emergenza Coronavirus (126 i casi ufficiali in Egitto, si pensa che siano molti di più) è stata rinviata a data da destinarsi. E con essa il futuro dello studente egiziano. Il destino di Patrick George Zaky resta sospeso tra un’emergenza sanitaria in atto da inizio anno ed una problematica umanitaria che affonda le sue radici in un terreno ben più esplorato.

di Pierluigi Lantieri

Il miglior farmaco


La proposta originale di Medici Senza Frontiere per affrontare la grande emergenza. Il servizio di Fabio Piccolino.

Per contrastare gli effetti del Covid-19, l’organizzazione umanitaria in prima linea nell’intervento sanitario chiede ai vari Paesi di rendere operativi i meccanismi di solidarietà predisposti dall’Unione Europea e inviare con urgenza le risorse necessarie nelle aree dove ce n’è più bisogno. In questo momento di crisi, spiegano, nessun paese può farcela da solo. Secondo la presidente di MSF, Claudia Lodesani, “questo virus non si ferma davanti alle frontiere e anche la solidarietà deve fare altrettanto: se non arrivano al più presto i dispositivi protettivi necessari, sempre più operatori sanitari si ammaleranno, riducendo la capacità di assistere i pazienti, creando nuovi focolai epidemici e indebolendo pericolosamente la lotta contro l’epidemia”.

Indifferenza immorale


La Siria è entrata nel decimo anno di guerra: una tragedia che ha devastato il Paese, costando la vita a 384 mila persone e che ha causato 11 milioni di profughi. Una carneficina, ricorda Unicef, che coinvolge quasi 8 milioni di bambini.  Secondo il Centro Astalli, occorre chiedere alla comunità internazionale ogni sforzo per dare pace ad un popolo allo stremo.

Non dimentichiamoli


Unicef e Unhcr lanciano un appello affinché l’emergenza coronavirus non dimentichi i 70 milioni di migranti e profughi nel mondo. Il servizio di Fabio Piccolino.
Di fronte alla pandemia del Covid-19 non bisogna dimenticare migranti, rifugiati e sfollati: è l’appello lanciato nei giorni scorsi dell’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati e dall’Unicef affinché le fasce più deboli della società non siano discriminate e gli ultimi non siano dimenticati. UNHCR ha ricordato che sono circa 70 milioni le persone che nel mondo sono costrette a migrare a causa di persecuzioni, conflitti, violenze e violazioni dei diritti umani. Proprio per questa ragione, la risposta al problema del coronavirus deve includere e concentrarsi sulle esigenze di ogni singolo individuo, compreso chi si trova in questa condizione.

L’altro tricolore


Dal prossimo lunedì anche la Francia chiuderà scuole e università a causa del coronavirus. È la risposta, secondo molti giudicata tardiva, del governo di Parigi, per cercare di contenere il contagio. Chiusure anche in Belgio e Portogallo, restrizioni a livello locale in Germania, mentre in Spagna sono state isolate quattro città nella provincia di Barcellona. Una situazione inedita e in continua evoluzione.

La grande ritirata


Le forze militari statunitensi hanno cominciato a lasciare l’Afghanistan dopo 19 anni di guerra: è il risultato dell’accordo dello scorso 29 febbraio tra Washington e i talebani e dei negoziati con il governo di Kabul. La risoluzione è stata approvata all’unanimità dalle Nazioni Unite e prevede lo scioglimento di tutte le organizzazioni terroristiche.

Rendere visibile l’invisibile


È l’indagine di Unicef sulle minori non accompagnate in Italia, Grecia e altri paesi europei. Il servizio di Fabio Piccolino
“Come rendere visibile l’invisibile: l’identificazione delle minori straniere non accompagnate in Bulgaria, Grecia, Italia e Serbia” è un’analisi realizzata da Unicef sulle minorenni che mette in evidenza le sfide affrontate dalle bambine e dalle ragazze che viaggiano verso e attraverso l’Europa tramite la rotta del Mediterraneo Orientale e Centrale. Percorsi notoriamente pericolosi per le ragazze adolescenti: molte di loro sono in fuga da violenze e abusi nei propri paesi di origine, oppure sono vittime di tratta. Una condizione che ostacola il loro accesso ai diritti e ai servizi di base, e che le lascia esposte al pericolo di subire ulteriori abusi, sfruttamento e violenza.

Mercato in crescita


Le vendite di armi verso il Medio Oriente sono cresciute in modo esponenziale negli ultimi cinque anni. Sono i dati del nuovo Rapporto del Sipri, l’Istituto internazionale di ricerca sulla pace, che spiega come il business delle esportazioni sia dominato da Stati Uniti, Russia, Francia, Germania e Cina. Un settore sempre in salute, nonostante la crisi economica internazionale.

Solidarietà sotto processo


Il nuovo rapporto di Amnesty International racconta la criminalizzazione di chi difende i diritti umani all’interno dell’Unione Europea. Il servizio di Fabio Piccolino.
Si chiama “Punire la compassione” il nuovo Rapporto di Amnesty international che punta i riflettori sulla criminalizzazione delle organizzazioni che si occupano di assistenza e solidarietà. Un dossier che denuncia un uso politico della giustizia che vuole colpire e intimidire le organizzazioni e i singoli cittadini che hanno difeso i diritti umani e che si sono adoperati per aiutare rifugiati, richiedenti asilo e migranti. Secondo Amnesty, “Poiché gli Stati europei non vengono incontro ai bisogni fondamentali dei rifugiati e dei migranti, spesso sono le persone comuni a fornire sostegno e servizi essenziali: punendo chi cerca di colmare questo vuoto, i governi europei stanno mettendo ancora più a rischio queste persone”.

Brutto tempo


Brutto tempo. La Commissione europea ha presentato una proposta di Legge sul clima, con l’obiettivo di eliminare le emissioni inquinanti entro il 2050. L’iniziativa prevede modifiche ai regolamenti europei sul tema ambientale e il coinvolgimento delle comunità locali. Critica l’attivista Greta Thunberg, che ha contestato i tempi previsti per il provvedimento.

L’unione Europea muove i primi passi verso un futuro ecosostenibile. La svolta verde annunciata dalla presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen, nel suo discorso d’insediamento alla fine dello scorso novembre, viene ufficialmente messa per iscritto con la proposta di Legge sul clima presentata mercoledì 4 marzo a Bruxelles di fronte all’Europarlamento. Comincia a delinearsi il quadro del green deal europeo, piano di investimenti stimato intorno ai mille miliardi di euro per la transizione verde del continente, che la Commissione guidata dalla politica tedesca ha posto al centro del proprio mandato. E l’iniziativa legislativa fatta pervenire in questi giorni mira all’obiettivo centrale del piano: neutralità climatica entro il 2050. Per ottenere la totale eliminazione delle emissioni inquinanti la Legge ha in programma una riconversione ecologica di tutte le politiche europee. Inoltre sono previsti monitoraggi sui miglioramenti di ciascuna nazione e traguardi intermedi in modo da poter raggiungere uniformemente e gradualmente la meta finale.
In particolare sui vincoli che ogni Paese è tenuto a rispettare e sulla percentuale di emissioni inquinanti da ridurre sono sorte le principali critiche interne (tra gli Stati membri) ed esterne (movimento ambientalista) alla proposta. La giovane attivista svedese Greta Thunberg, che il giorno della presentazione della Legge sedeva accanto ad Ursula Von der Leyen, ha definito una resa l’obiettivo al 2050 esortando ad intervenire dal 2020. “Nessun piano, politica o impegno sarà neppure vicino a sufficienza finché continueremo a ignorare i limiti per la CO2 che dobbiamo rispettare oggi. Emissioni zero nette entro il 2050 equivale a dire resa. Non abbiamo solo bisogno di obiettivi per il 2030 o il 2050: ne abbiamo bisogno soprattutto per il 2020 e per ogni mese e anno a venire”. Messaggi di disappunto sono giunti anche dal nostro paese con Legambiente che attraverso un comunicato stampa ha sottolineato “la scarsa efficacia di una proposta che punta a ridurre al 2030 le emissioni di gas-serra del 55% rispetto ai livelli del 1990”. Un obiettivo intermedio che l’associazione definisce “poco ambizioso e non in linea con i parametri degli Accordo di Parigi che puntano a contenere il surriscaldamento del pianeta entro la soglia critica di 1,5°C”. La stessa associazione ha rilanciato una riduzione di “almeno il 65% entro il 2030, rispetto ai livelli del 1990, in coerenza con le indicazioni dell’Emissions Gap Report delle Nazioni Unite”.
Ma gli interrogativi più corrosivi sembrano sorgere tra i decisori politici stessi. Infatti per garantire il rispetto del regolamento la Commissione potrebbe avvalersi dello strumento della “procedura d’infrazione” da aprire contro gli stati inadempienti. Una soluzione che però non convince una parte dei Paesi membri, soprattutto dell’est europeo, che reputano la soglia da rispettare troppo compromettente per i loro sistemi di produzione, dipendenti in larga parte da fonti inquinanti e non rinnovabili. Per la stessa ragione anche i Paesi più virtuosi hanno manifestato perplessità. Questi contestano la modalità per il raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni che saranno vincolanti per l’Unione nel complesso, non per i singoli stati. In questo modo potrebbe generarsi un cortocircuito nell’applicazione delle norme con il disallineamento di paesi come Polonia, Ungheria, Bulgaria e Romania che approfitterebbero degli sforzi altrui.
Il cammino dell’Europa per diventare il primo continente a neutralità climatica è appena partito. Purtroppo la meta finale è ancora tanto, troppo lontana.

di Pierluigi Lantieri