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Paralimpiadi, la forza della judoka sordocieca Matilde Lauria


La forza dello sport: la judoka napoletana sordocieca Matilde Lauria è l’unica atleta della sua categoria con le due disabilità ai Giochi di Tokyo. “Sono alle Paralimpiadi – ha detto – per dimostrare che anche con delle disabilità si possono fare grandi cose”. Domenica 29 agosto la sua prima gara.

Sisma 2016, l’impegno di U.S. Acli per “ricostruire le comunità”


 

 

Ricostruire le comunità. Arriva al quinto anno il progetto dell’U.S. Acli che utilizza lo sport come strumento di ripartenza dopo il sisma del 2016. Il servizio è di Pierluigi Lantieri.

Tutto cominciò con quella tragica scossa del 24 agosto 2016: polvere e macigni riempirono le aree del Centro Italia colpite dal terremoto. 5 anni dopo il ritorno alla normalità prosegue, anche con il supporto del terzo settore. È in questo sfondo che va inquadrato il progetto “Ricostruire le comunità”, che nel 2021 l’Unione Sportiva Acli ha realizzato nel territorio di 8 Comuni.

Manifestazioni, eventi, corsi sportivi di vario genere: attività che non si sono mai fermate in questi 5 anni, accompagnando migliaia di persone verso l’uscita dal tunnel delle macerie. Al centro la gratuità e la speranza di un futuro migliore.

La giusta onda: corsi di surf per persone con disabilità a Santa Marinella


La giusta onda: a Santa Marinella, sul litorale laziale, i corsi di surf per persone con disabilità della Ong Seeds of Hope. Insieme alle potenzialità terapeutiche dell’esercizio in acqua e della vita in comune, i ragazzi che partecipano al workshop imparano a rispettare la natura dell’ambiente marino.

Tokyo 2020: domani il via ai Giochi Paralimpici


Lo sport di tutti. Domani al via i Giochi Paralimpici di Tokyo: la delegazione azzurra, che con 113 atleti è la più numerosa di sempre, punta a superare le 39 medaglie conquistate a Rio.
Secondo Luca Pancalli, presidente del Comitato Italiano, occorre “continuare ad alimentare quella rivoluzione culturale che sta contribuendo a cambiare la percezione della disabilità”.

Sport e inclusione: skateboarding per tutti a Ponte Mammolo (Roma)


Giochi in periferia. Fino a domani a Ponte Mammolo, periferia est di Roma, sarà disponibile un maxi schermo per assistere alle gare di skateboarding dei giochi olimpici di Tokyo 2020. Lo schermo è stato allestito nel primo impianto italiano strutturato per ospitare ogni disciplina sportiva su rotelle, e rivolto anche ad atleti con mobilità ridotta.

In viale Kant, a Ponte Mammolo, lo skateboarding è per tutti: sport e inclusione sociale al BNKR Toyota Wheel Park, il progetto europeo che punta a una società sempre più sostenibile. Si tratta del primo impianto in Italia, allestito su un’area riqualificata da Toyota, strutturato per ospitare ogni disciplina sportiva su rotelle, dedicato ad atleti, o semplici appassionati, anche con mobilità ridotta. È in partnership con i Comitati dei Giochi Olimpici e Paralimpici. Fino al 6 agosto un maxi schermo offrirà la possibilità di assistere alle gare di skateboarding dei giochi olimpici di Tokyo 2020.

Lo scorso 26 luglio il BNKR Toyota Wheel Park ha ospitato un evento per celebrare lo storico debutto dello skateboarding ai Giochi Olimpici e Paralimpici di Tokyo 2020. Presente anche Ilaria Naef, prima atleta italiana di WCMX (Wheel Chair Motocross).

“La nostra associazione crede fermamente che sport come lo skateboarding e nuove discipline come il WCMX possono alimentare un sano sentimento di rispetto di tutte le mobilità, facilitando la capacità di muoversi di tutti – ha detto Marco Del Moro, Presidente ASD Bunker. Siamo oggi tutti più abituati a vedere scooters, skateboard, longboard, biciclette nelle nostre città e diventa sempre più necessario, e interessante, imparare a guidare e gestire questi mezzi, a rispettare un codice di mobilità, forse più slow, ma senza dubbio più integrato, in cui si passi dallo stare fuori allo stare dentro un abitacolo, con consapevolezza globale e rispettando l’ambiente”.

Donne e violenza: la protesta degli schermidori del team Usa con una mascherina rosa


Neanche con un fiore. Una mascherina rosa per protestare contro la presenza in squadra di un atleta sotto accusa per molestie sessuali e mostrare solidarietà con le vittime. I tre spadisti titolari del team Usa hanno voluto prendere così le distanze dal compagno che era stato escluso dalla squadra a giugno rientrato vincendo il ricorso in tribunale.

Arriva anche a Tokyo, alle Olimpiadi, la protesta in solidarietà delle donne vittime di abusi. E’ il caso dei tre atleti statunitensi Jake Hoyle, Curtis McDowald e Yeisser Ramirez che si sono presentati in pedana, in occasione della sfida degli ottavi di finale del torneo di spada a squadre, indossando una mascherina di colore rosa per protestare per la presenza della riserva del loro stesso team, Alen Hadzic, che invece ne portava una nera. Alan Hadzic, lo scorso 2 giugno, venne sospeso da tutte le attività sportive dall’US Center for Safe Sport, l’agenzia indipendente che indaga sugli abusi sessuali negli sport olimpici, a seguito di tre denunce sporte da tre donne per fatti risalenti ai tempi in cui lo schermidore, ora 29enne, era studente alla Columbia University, tra il 2013 e il 2015.

Accuse di abusi sessuali completamente rigettate dall’atleta. Tuttavia, lo spadista statunitense ha presentato ricorso e ha vinto, “perché le indagini sono ancora in corso e non si è ancora arrivati a una sentenza definitiva”, come dichiarato dal suo avvocato, Michael Palma. E così Alan Hadzic è stato reintegrato nel Team Usa come riserva. A quel punto, però, sono insorti i compagni e soprattutto le compagne di squadra di Hadzic, che avevano detto di “sentirsi in pericolo” e scritto al Cio per far sapere di sentirsi “offese e umiliate” per la presenza del collega. Così allo spadista, arrivato in Giappone su un volo diverso da quello degli altri, era stata imposta una “zona di contenimento” e quindi imposto di non alloggiare al villaggio olimpico, in quanto presenza non gradita.

Ma nulla gli ha impedito di andare in pedana, seppure da riserva, nella sfida contro il Giappone, poi persa dai compagni che non lo volevano con loro e che, in ogni caso, hanno voluto prendere le distanze. Il comitato olimpico statunitense e la federazione scherma dello stesso Paese non hanno ancora voluto fare commenti su quanto successo.

Libera con gli scacchi: la storia della campionessa iraniana Mitra Hejazipour


Libera grazie agli scacchi. La campionessa di scacchi iraniana Mitra Hejazipour è stata accolta dalla Federazione francese per la quale potrà gareggiare, dopo essere stata cacciata da quella del suo Paese per aver scelto di non indossare il velo durante i Campionati del mondo di Mosca 2019.

Ancora cinque anni fa la campionessa di scacchi iraniana Mitra Hejazipour ubbidiva alle richieste del regime degli ayatollah e ripeteva il copione già scritto. «Il velo non è oppressione, ci siamo abituate e lo accettiamo», diceva in tv — indossando l’hijab — per difendere davanti ai media occidentali i campionati del mondo femminili in programma a Teheran nel febbraio 2016 e minacciati da un boicottaggio. Da allora le cose sono molto cambiate. Mitra Hejazipour ha trovato la forza di ribellarsi, ha lasciato l’Iran e ora è stata accolta dalla Federazione francese. In attesa di chiedere la cittadinanza, potrà già gareggiare per i colori della Francia.

«Ogni volta che ci incontravamo le chiedevo di venire da noi», dice il maestro iraniano di scacchi Reza Salami che da decenni vive a Brest. Nel 2019 Salami è riuscito a convincerla, e Mitra Hejazipour si è trasferita — in teoria per una sola stagione — all’Usam, il club della città bretone. A Brest la ragazza iraniana, campionessa d’Asia nel 2015, ha potuto apprezzare libertà negate in patria, come andare allo stadio ad assistere a una partita di calcio dello Stade Brestois, la squadra della città. La svolta il 25 dicembre 2019 a Mosca, ai Campionato del mondo di scacchi blitz (tempo minore a disposizione per ogni mossa, ndr), quando Mitra, che all’epoca fa ancora parte della squadra nazionale iraniana, decide di giocare senza velo. L’immagine del capo scoperto e dei capelli raccolti nella coda di cavallo suscita scalpore in Iran e pochi giorni dopo Mehrdad Pahlevanzadeh, presidente della federazione iraniana, la caccia: «Mitra non ha più posto nella nostra squadra».

Lei fa del suo gesto una rivendicazione politica, e lo spiega su Instagram: «La mia vita sotto il giogo del velo forzato è cominciata a sei anni, con la frase di uno zio: “Cara nipote, non sarebbe meglio portare l’hijab?”. Da quel momento ho dovuto portarlo sempre, anche in famiglia, per fare contenti i parenti. Mi ricordo del mio primo viaggio all’estero, in Germania (ai campionati mondiali under 10, nel 2003, ndr): avevo nove anni, ero stupita da quelle tedesche dai capelli biondi che ci guardavano come se fossimo arrivate da un altro pianeta e si tenevano a distanza dalle guardiane della nostra squadra, vestite con il chador. L’hijab forzato è il simbolo di una ideologia che considera le donne come un sesso inferiore, e io non voglio più fare finta di accettarlo».

Mitra Hejazipour, oggi 26 enne, d’ora in poi giocherà nella squadra francese e non potrà più tornare in Iran, dove restano i suoi genitori e una sorella più piccola. Il suo gesto dà forza alle donne che in Iran combattono contro l’obbligo del velo istituito dalla rivoluzione islamica del 1979, e mette in imbarazzo quanti in Francia sostengono il carattere totalmente libero della scelta di tante donne musulmane francesi di portare il velo. «I migliori momenti sono quelli che passi con il vento che fa volare i capelli — ha scritto Mitra —. Quanto è doloroso imprigionare i capelli danzanti in una stoffa… L’anima muore quando è messa in prigione dopo avere provato il gusto della libertà».

I Giochi delle donne: le storie di Simone Biles e Sanda Aldass a confronto


 

 

Essere umani. Il ritiro di Simone Biles dalle Olimpiadi che rompe il tabù della salute mentale nello sport. Il servizio è di Pierluigi Lantieri.

Chi non ce la fa più, lo dice e chi trova la sponda per andare avanti. Sempre più quelle di Tokyo sono le Olimpiadi delle donne, storie che mettono a nudo le vene aperte del business olimpico. Il ritiro della statunitense Simone Biles, la ginnasta delle meraviglie, rompe il tabù della salute mentale nello sport: non puoi concentrarti sempre sulle gare e devi pensare anche a te stesso.

Risponde a distanza Sanda Aldass, 31 anni, una dei 29 atleti che compongono la squadra olimpica di rifugiati arrivata a Tokyo 2020. “Senza il judo a tenermi occupata, sarei impazzita – dice – Le Olimpiadi erano un sogno che però si è trasformato in realtà”.

di Pierluigi Lantieri