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Se la periferia riparte dalla bellezza

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Opera d'arte di Jorit Agoch

Opera d’arte di Jorit Agoch

Lo diceva Peppino Impastato, ci hanno abituato a non pretendere la bellezza. E i luoghi urbani dove la scoperta del bello è rivoluzionaria sono soprattutto le periferie. Ed ecco che a Ponticelli spunta un’immensa opera d’arte, grande 20 metri come la facciata di una palazzina di sette piani. E proprio su una di queste facciate l’artista Jorti Agoch ha dipinto il volto di una bimba rom. Solo a pochi metri da quegli edifici nel 2008 furono incendiati i campi rom e 500 persone furono costrette a fuggire. Fu il segnale di un cambiamento profondo di quartieri operai che sono strozzati da disoccupazione, evasione scolastica, abbandono istituzionale e camorra.

 

Solo qualche mese fa proprio Ponticelli andò alla ribalta dei media nazionali con le immagini del  far west al rione Conocal, bunker dimenticato delle nuove leve criminali. Bene, proprio in quel rione domani ci sarà una Marcia per la pace. Sono coinvolti gli studenti, quasi mille che ogni giorno frequentano le scuole dell’area orientale di Napoli. “Per rispondere ai fatti inquietanti degli ultimi mesi il comitato civico ‘Porchiano bene comune’ – che opera nel quartiere Ponticelli – ha voluto portare in strada centinaia di studenti delle scuole del quartiere e non solo. I ragazzi, insieme ai rappresentanti delle Istituzioni e delle associazioni locali, sfileranno lungo le strade che ultimamente hanno visto protagonisti i delinquenti dei clan camorristici locali, procurando paura e terrore tra i cittadini onesti. Il passaggio del corteo nell’ormai famigerato “Rione Conocal” è una azione simbolica con la quale si vuole dimostrare che la legalità è un valore che vincerà sempre sui giochi sporchi delle bande che arrivano ad ammazzare vite umane pur di ottenere il controllo sugli affari illeciti. Una marcia nella “periferia della periferia” alla quale invitiamo a partecipare tutte le forze pulite di questa città”.

 

Con loro ci saranno i rappresentanti del Comune, la delegata all’antiracket Anna Ferrara e Antonella Leardi, presidente dell’associazione Vittime Violenza Sportiva Ciro Vive e mamma di Ciro Esposito. All’iniziativa ci sarà l’amichevole partecipazione degli artisti Lino D’Angiò, Felice Romano e Alex Moschetto con i ragazzi di Scampia.

 

Dopo la serrata dei commercianti sostenuta da Sos Impresa, ora gli stradoni di periferia non saranno preda di moto e aspiranti boss con il mitra in pugno ma centinaia di ragazzi che pretendono una primavera civile. Pretendere sempre la bellezza, anche  a Ponticelli e al Rione Conocal

Internet ai tempi dei Nobraino (e di Gianni Morandi)

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nobrainoDai social network non si prescinde. Eppure bisogna fare più attenzione di quanto non si creda.
Nei giorni scorsi i Nobraino, band italiana dal discreto seguito di critica e pubblico, scrive su facebook uno status (piuttosto infelice) dopo la tragedia del mare che è costata la vita a 800 persone a largo della Libia.
Avviso ai pescatori: stanno abbondantemente pasturando il Canale di Sicilia, si prevede che quelle acque saranno molto pescose questa estate
La rete, per usare un eufemismo, non la prende bene, e in poche ore la loro bacheca si infiamma di commenti violenti, accuse, minacce, parole al veleno.
Arriva il tweet di Roy Paci, direttore artistico del Primo Maggio di Taranto, che senza troppi giri di parole, invita i Nobraino, previsti in cartellone, a non presentarsi alla rassegna. Così come tanti altri, organizzatori di eventi e gestori di locali, che scaricano la band. Poche parole su un social network, che rischiano di costare caro.
Il post incriminato tuttavia, era accompagnato da un link del blog Diritti e Frontiere che si batte per la tutela dei richiedenti asilo e dei diritti dei migranti. Lo stesso Nestor Fabbri, chitarrista dei Nobraino e autore del post contestato,  si occupa da anni di protezione internazionale dei diritti umani, ed ha lavorato per alcune Ong.

 

La frase dunque, andrebbe contestualizzata. Rimane sì una uscita poco felice e di dubbio gusto (quella che Daniele Luttazzi definirebbe “satira fascistoide”, perchè dileggia le vittime e non i carnefici) ma non trasforma i Nobraino in dei cinici razzisti.
Il linciaggio mediatico subito dalla band però mette in luce alcuni aspetti chiave della comunicazione di oggi: da un lato la necessità, quasi viscerale, di esprimere la propria opinione, figlia di un protagonismo da palcoscenico virtuale. Dall’altra, la scarsa attenzione alla realtà dei fatti: si legge poco e male, non si approfondisce, ci si ferma ai titoli e ci si forma un’opinione del tutto distorta.
Due aspetti che vanno di pari passo e che caratterizzano, in negativo, la realtà dei social media  ed inquinano il dibattito sociale e politico su temi sensibili.
Sul primo punto, quello della necessità di esprimersi a tutti i costi, è evidente che ormai libertà di parola e libertà di offesa viaggiano su binari paralleli. Su qualsiasi contenuto, di qualsiasi argomento, troviamo tutto e il contrario di tutto. I commenti degli utenti diventano uno spazio di confusione intellettuale dove l’offesa verso il prossimo è sempre in agguato e porta a spirali infinite di polemiche virtuali.
In molti casi, osservagianni morandire il comportamento delle persone sul web significa ascoltare la pancia dei nostri concittadini.  Senza censure, gli utenti della rete danno spesso sfogo a sentimenti reconditi che probabilmente non riescono ad esprimere con la stessa veemenza nella vita vera.
Fino a chiedersi se ha davvero senso scrivere un commento su un sito web: sommare la propria voce ad uno schiamazzo così forte da risultare indistinto.
Un esempio pratico lo si può incontrare scorrendo i commenti della pagina facebook di Gianni Morandi, dopo la pubblicazione di un messaggio di solidarietà alle vittime del naufragio.
Persino il povero Gianni, figura rassicurante per eccellenza, e che ha fatto della sua pagina facebook uno spazio di incontro e di confronto, non viene risparmiato da una valanga di commenti  razzisti e xenofobi, a cui nonostante tutto, cerca di rispondere con gentilezza e cortesia, per quanto possibile.

 

La piazza virtuale aperta dai nuovi mezzi di comunicazione rivela strade potenzialmente sterminate, ma anche disseminate di buche dentro cui è facile cadere. Le parole hanno un peso che può trascinare a fondo: lo sanno bene i Nobraino, così come lo sa Fabio Tortosa, il poliziotto che su facebook ha rivendicato l’assalto alla scuola Diaz di Genova nel 2001. Lo sanno bene i politici (Santanchè e Gasparri e le gaffe su twitter) e i personaggi pubblici (Paola Saluzzi e il tweet infelice contro il pilota di Formula 1 Fernando Alonso).

 

Il secondo aspetto, quello dell’approssimazione e della disattenzione ai contenuti, sembra essere una caratteristica propria del mondo moderno: siamo la generazione con il maggiore accesso ai mezzi di comunicazione di tutte le precedenti, ma la cascata di informazioni che riceviamo quotidianamente non ci rende più consapevoli o più informati.
All’indomani della tragedia di Charlie Hebdo, Andrea Alicandro si è divertito a provocare il popolo della rete con un articolo sul sito de Il Manifesto dal titolo “Sconcertante: la strage di Parigi provocata dalle scie chimiche, qui le prove”, e con uno, qualche giorno dopo che si intitolava “Incredibile: guardate cosa succede sul blog di Grillo”. I titoli volutamente accattivanti non avevano alcuna attinenza con i pezzi di Alicandro, ma l’esperimento è servito a dimostrare una amara verità: sul web non si approfondisce e spesso ci si ferma alle prime parole. E il giornalismo di oggi, è schiavo dei titoli “acchiappa-clic”.
Il risultato è stato abbastanza paradossale: gli utenti facebook “amici” del Manifesto, un target ben definito ideologicamente, ha espresso il proprio disappunto  a suon di commenti inorriditi per il fatto che il loro giornale preferito avallasse le tesi dei complottisti, collegando Charlie Hebdo alle scie chimiche.
Del resto, si tratta dello stesso meccanismo che muove operazioni editoriali come Lercio, sito di notizie volutamente false spesso amplificate da facebook, grazie al sistema dei titoli-esca. Nel 2013, per esempio, furono in molti a commentare inorriditi la notizia-bufala del gattino gonfiato col compressore in un campo rom.

 

Quello che resta è un’amara constatazione: il web ci ha proiettato verso il futuro mettendoci il mondo a disposizione, ma se non abbiamo la pazienza di acchiapparlo ci sfugge da tutte le parti, lasciandoci l’impressione di aver visto tutto senza averci capito niente.

“Next Stop Soweto”, musica dall’apartheid

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next_stop_soweto_4Negli anni terribili dell’apartheid sudafricano la scena musicale nera era in grande fermento nonostante le rigide leggi che governavano la vita pubblica del paese.
La Strut Records di Londra ha pensato di raccontarla attraverso una serie di compilation dal titolo emblematico “Next Stop Soweto”, di cui è appena uscito il quarto volume.
Dentro c’è la musica che non ti aspetti: sperimentazioni sonore che vanno a mescolare le  tradizioni zulu con il rock e la disco. La scoperta del Mbaqanga, genere peculiare del Sudafrica dagli anni ’60 in poi, un jazz che riscopre le radici rurali zulu e le trasforma in moderna world music.
Il Sudafrica dell’apartheid scoraggiava l’integrazione, attraverso leggi che confinavano i musicisti a seconda della loro appartenenza geografica e tribale: a Sophiatown, sobborgo di Joannesburg, si sviluppò tuttavia il centro artistico della cultura nera sudafricana, che attrasse gli artisti più curiosi delle nuove forme musicali, diventando in breve tempo un punto di incontro dello sviluppo della cultura musicale nera.
Gli abitanti di Sophiatown vennero in seguito sgomberati e l’intero quartiere raso al suolo, ma nessuno potè  cancellare quello che era nato tra quelle strade: la musica non ha barriere e non ha mai voluto averne.
I quattro volumi di “Next Stop Soweto” raccolgono vari momenti della storia musicale del Sudafrica e sono un viaggio sonoro a 360 gradi: quello appena uscito è il periodo 1975 – 1985 e mette insieme rock progressive, soul funk e disco. Quello precedente va dal 1963 al 1984 e analizza il jazz sudafricano, mentre il volume 2 (1969-1976) ha dentro brani R&B, soul e psichedelia. Fino al primo volume della serie, che raccoglie le radici di quello che è stato.
I brani di Next Stop Soweto hanno una grande forza: ascoltarli e perdersi dentro queste note mutevoli significa rivivere un piccolo miracolo dentro una storia paurosamente drammatica.

 

Giochi di parole

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Lui mi chiede: “Papà come faccio a raccontare ai miei compagni che la partita di oggi è stata arbitrata da una ragazza? Posso dire un’arbitra?”. Esordisce così, di domenica mattina, mentre io ancora con un occhio chiuso e uno aperto mi convinco che una risposta posso dargliela; giusta o sbagliata che sia, gli ho detto la mia. Che poi la risposta me l’ha suggerita la mia collega Clara in una mail di qualche giorno fa in cui mi suggeriva di leggere un articolo pubblicato sul sito dell’Accademia della Crusca.

Mio figlio che ha 9 anni vuole sapere perché non si può dire arbitra e la risposta a me pare evidente: il linguaggio con cui ci esprimiamo è chiaramente orientato, secondo me, verso il mondo maschile in quanto comunemente riconosciuto come “giusto”, a discapito di quello femminile che invece deve necessariamente adattarsi. E siccome parliamo anche di grammatica lui, mio figlio, anche se volesse non potrebbe utilizzare certi termini, pena la correzione con il rosso. Quindi niente assessora, arbitra o ministra perché la convenzione non lo prevede.

C’è un’ingiustizia di fondo di cui neanche le donne sembrano accorgersi. Anzi in molte ambiscono al ruolo prettamente maschile e quasi si alterano se provi a spiegargli che un’ingiustizia c’è. Qui subentra il complesso di inferiorità a cui l’uomo le ha costrette.

Sono convinto che questo argomento non avrebbe alcuna importanza se non ci fosse quest’ingiustizia di fondo, come non lo sarebbero le quote rosa che sono invece la rappresentazione palese del fallimento della nostra società dove l’uomo esercita la propria supremazia.

E allora perché non ministra, ingegnera o  assessora? Perché non insegnare che la parità tra gli uomini e le donne passa anche attraverso il linguaggio? Perché non insegnarlo dai primi anni di scuola?

Forse sono un inguaribile romantico, ma non sarebbe poi così male anche perché mi chiedo: esattamente, cosa toglie alla lingua?

Je so’ pazzo: ex Opg occupato nel cuore di Napoli

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Ex Opg Sant'Eframo occupato

Ex Opg Sant’Eframo occupato

Non poteva esserci nome migliore come il titolo della canzone di Pino Daniele. “Je so’ pazzo” è l’occupazione dell’ex Opg di Sant’Eframo, quartiere Materdei, nel cuore del centro di Napoli.

 

Lunedì 2 Marzo decine di studenti, lavoratori, cittadini hanno occupato l’Ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario  “per restituirlo al quartiere e alla città. Si tratta infatti di un complesso enorme, abbandonato ormai da sette anni, la cui parte immediatamente utilizzabile ha stanze, cortili, terrazzi, un orto, un teatro, un campo di calcetto, insomma: tanti spazi che potrebbero essere utilizzati per attività culturali, sociali, aggregative per bambini, famiglie e per tutti quelli che in questi anni sono stati colpiti dalla crisi”.

 

A promuovere l’iniziativa sono gli studenti del Collettivo Autorganizzato Universitario. I ragazzi si sono trovati subito di fronte agli agenti della Polizia Penitenziaria e il direttore Carlo Brunetti che sono giunti sul posto e fatto irruzione nel complesso minacciando gli occupanti di uno sgombero imminente. E così è partita la campagna a sostegno della struttura con le adesioni di associazioni, movimenti e singole personalità come, tra gli altri, Peppe Lanzetta, Bebo Storti, 99 Posse e Sandro Ruotolo.

“Je so pazzo” è il nome scelto, “perché in un mondo dove la normalità è fatta da disoccupazione, precarietà, discriminazioni razziali e di genere e chi più ne ha più ne metta, vogliamo dichiararci pazzi anche noi come Pino, e osare organizzarci per riprendere parola insieme a chiunque voglia farlo con noi per costruire dal basso un’alternativa al mondo grigio e disperato che vediamo quotidianamente. Chiediamo che la polizia penitenziaria la smetta con le sue minacce e che non ci sia nessun intervento della forza pubblica, ma l’apertura di tavoli di confronto. Chiediamo che l’Ex-OPG occupato non venga sgomberato, ma che anzi possa essere riaperto e affidato ai cittadini per attività sociali”.

 

Questo è il tentativo di riaprire alla comunità uno dei luoghi più bui dell’internamento di sofferenti psichici. L’ex Opg fu chiuso nel 2008 e i reclusi trasferiti in un’ala del carcere di Secondigliano, scatenando non poche polemiche. Ma Sant’Eframo è anche incrocio di storie come quella di Vito, internato per 50 anni e graziato dal presidente Carlo Azeglio Ciampi dopo una campagna lanciata da Francesco Maranta, autore anche del testo “Vito, il recluso” diventato poi un cortometraggio.

 

E mentre mancano poche settimane alla chiusura degli Opg, a Napoli un’ex luogo di sofferenza e prigionia vuole diventare luogo di comunità, socialità e incontro. “Je so’ pazzo” e tu?

 

Sanremo, la tradizione e la locura

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Quando la famiglia Anania ha calcato il palco dell’Ariston, dentro ho sentito un misto di incredulità e disgusto.
L’immagine della “famiglia più numerosa d’Italia” e di quel padre che invocava continuamente alla provvidenza, allo Spirito Santo e al Signore Gesù mi ha sinceramente turbato, e ci ho messo un po’ ad elaborare queste sensazioni iniziali.
Ho visto tutta la serata inaugurale del Festival di Sanremo come faccio ogni anno, perchè sono convinto che si tratti dello spettacolo pop per eccellenza e che il teatro Ariston, in questi giorni di febbraio, offra una rappresentazione del paese da cui non si può prescindere se si è interessati ai fenomeni sociali e culturali.

 

Così, mi sono chiesto perchè Sanremo 2015 sia iniziato con questo piglio.
La scelta di Carlo Conti come direttore artistico e presentatore è chiara fin dall’inizio: dopo le due edizioni di Fabio Fazio, rivoluzionarie secondo gli standard del Festival, quest’anno ci vuole “tradizione”.
Ma che cos’è la tradizione?
Nella prima serata di Sanremo 2013, il primo condotto da Fazio, sul palco sono saliti Stefano e Federico, una coppia gay che si è sposata a New York.
I due, riproponendo un video che ha avuto molto successo su youtube, aprivano in diretta televisiva il dibattito sulla condizione delle coppie omosessuali in Italia, esibendo una serie di cartelli  esplicativi. “Ci amiamo/Vogliamo sposarci/Ma a New York/Perchè le leggi di questo paese non ce lo lasciano fare” era il mood dell’esibizione.

 

La famiglia omosessuale e la famiglia devota con sedici figli. Fazio contro Conti.
Quest’anno, avranno pensato alla Rai, rimettiamo le cose al loro posto. Che, si sappia, è questa la famiglia tradizionale. Stravagante  e un po’ singolare forse, ma molto religiosa e sopratutto, con un padre e una madre.
Forse è proprio questa è la tradizione evocata da Sanremo 2015, con garbo e con rispetto solo apparenti. Perché sì, l’omosessualità esiste e va rispettata, ma stavolta la sua rappresentazione non deve in nessun modo essere associata alla famiglia.
L’omosessualità quest’anno è raffigurata come una caratteristica bizzarra, un vezzo da artisti.
Può essere gay Tiziano Ferro, il primo dei superospiti di questa edizione (che per inciso, esibendo una voce impeccabile ha impietosamente sottolineato la qualità di molti dei cantanti in gara).
Può essere gay Platinette, che qui sveste gli abiti della drag queen e si presenta come  Mauro Coruzzi  con una canzone male assortita proprio sull’ambivalenza uomo/donna e sul pregiudizio.
Può essere gay Conchita Wurst, ospite della seconda serata, che per molti non è altro che la donna con la barba.

 

Ma Fazio o Conti rappresentano due Italie che coesistono e convivono per non cambiare mai. Per un anno ci travestiamo da tolleranti progressisti e mettiamo al centro del dibattito i temi sociali.
L’anno successivo ci stracciamo le vesti e invochiamo la famiglia tradizionale e la divina provvidenza.
Due facce diverse di una medaglia che è sempre la stessa e che va mantenuta com’è, senza troppi stravolgimenti.
E poco importa se dentro ci sono le offese alla diversità camuffate da cabaret (Alessandro Siani contro il bambino in sovrappeso), le battute che non fanno ridere del gruppo Boiler, la patetica reunion di Al Bano e Romina, che si lanciano sguardi di odio ma che cantano una Felicità che entrambi hanno trovato altrove.
O ancora, Biggio e Mandelli, meglio conosciuti come “I soliti idioti”, a mettere sul piatto una comicità volgare e vetusta e allo stesso tempo innocua, indolore, senza troppe conseguenze.

 

Forse è proprio questo il tema.
Quello che esce dagli schermi è un’Italia ingiallita e sempre uguale a sé stessa, anche se travestita di nuovo,  e proprio per questo terribilmente rassicurante.
In una delle ultime puntate di Boris, la serie televisiva che tra il 2007 e il 2010 ha messo alla berlina la televisione, lo spettacolo e l’Italia tutta, c’è una scena che riassume tutto questo alla perfezione.
Alla ricerca disperata di un modo per salvare la fiction “Gli occhi del cuore” e riconquistare l’affetto del pubblico, uno dei tre sceneggiatori ha un’illuminazione. Quello che serve è la locura.
“La tradizione, ma con una bella spruzzata di pazzia. Il peggior conservatorismo che però si tinge di simpatia, di colore, di paillettes. In una parola, Platinette.
Platinette ci assolove da tutti i nostri mali, da tutte le nostre malefatte. Sono cattolico ma sono giovane e vitale perchè mi divertono le minchiate del sabato sera. Ci fa sentire la coscienza a posto, Platinette.
Questa è l’Italia del futuro: un paese di musichette mentre fuori c’è la morte”.

 

Come spiegare Pino Daniele se “nun sann ‘a verità”

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terra mia“So quanto sei legato a Pino Daniele, mi dispiace tanto amico mio”. La dolcezza di Fabio mi arriva tramite un messaggio mentre la news dell’ultim’ora non ha dubbi: Pino Daniele è morto.

 

Fermo davanti al balcone di casa, vedo il Vesuvio baciato dal sole quasi per dispetto e le lacrime che scorrono sul viso a ricordarti una perdita, un’appartenenza.  In testa rimbalza una domanda: come spiegare il significato di canzoni che sono parte di te? Come spiegare quando a 6 anni ha sentito Je so’ pazz’ per la prima volta e l’hai capita dieci anni dopo come un tatuaggio. Come spiegare quando hai 15 anni, vivi in un quartiere popolare, e “voglio di più di quelli che vedi, voglio di più di questi anni amari: sai che non striscerò per farmi valere”.

 

Come spiegare  “ ‘na tazzulell ‘e cafè e mai nient ce fann sapè”. Come spiegare lui e Massimo (Troisi), canzoni e film di una Napoli lontana da sceneggiate, camorra, pizza e mandolino perché “ ‘o sai comm fa ‘o core quando s’è sbagliato”. Come spiegare i “lazzari felici” che ritrovo in un testo di storia di Vittorio Dini all’Università. Come spiegare “chill è nu buon uaglione che peccato è nu poc ricchione”. Come spiegare lui in piazza del Plebiscito con il blues dei Napoli Centrale e ancora 30 anni dopo, senza aver mai fatto il guitto di cerimonie, boss e potenti. Come spiegare “chi ten ‘o mar ‘o sai: port na croce”, “sient’ nun fa accussì, nun dà rett a nisciun: fatt’ ‘e fatt tuoie ma se è ‘a suffrì caccia a currea”, “ ‘o padrone nun dà duie sord, dice semp ‘e faticà”.

 

Come spiegare ciò che stanno provando decine di migliaia di persone, napoletani e non, sparsi per il mondo che in quelle canzoni trovano l’orgoglio di una Napoli possibile. Sono canzoni di uno di famiglia, uno zio o un fratello più grande. Testi e musica mai sguaiate, scritti con discrezione e iniziati a fine ’70, negli “anni favolosi”.

 

Come spiegare? Non lo so.  È qualcosa che ti appartiene e che sei sicuro resterà anche per chi verrà dopo. E sarà patrimonio per chi crede nella Napoli dei “mille colori”, nella città che aspetta “ ‘o vient” che “trase rint ‘e piazz, rump’ ‘e fenest’ e puort’m ‘e voci e chi vo’ alluccà”.  Che questa “terra mia”, violentata e abusata, continui a cantare a squarciagola che tanto Napoli “ ‘a sape tutto ‘o munn ma nun sann ‘a verità”.

QUESTIONI DI SHARE!

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C’ho pensato un po’ prima di scriverne. Ho voluto rivedere il programma un’altra volta e di nuovo ho tirato un sospiro di sollievo. Sì, perché Questioni di famiglia è un programma televisivo che dal mio punto di vista è diverso dagli altri. Uno di quelli che affronta tematiche attualissime capaci di suscitare reazioni discordanti nel pubblico che, soprattutto sui social, ha manifestato un forte dissenso così come una grande ammirazione. E fin qui tutto normale direi.

Non c’è il tempo necessario per entrare nel vivo del programma, per familiarizzare con una conduttrice e giornalista garbata come Marida Lombardo Pijola, da sempre impegnata nel sociale, che il programma chiude. L’annuncio arriva con un comunicato di Andrea Vianello, direttore della terza rete, che pur riconoscendo il valore del programma ‘spegne le macchine’ per la scarsa attenzione del pubblico.

Questione di share dunque, altro che famiglia!

Il programma aveva l’ambizione di raccontare la famiglia italiana e le sue trasformazioni. Aveva il pregio di farlo a bassa voce, senza clamori o scoop annunciati, senza ricercare necessariamente le lacrime che pur avrebbero avuto un senso in quella sede. Niente di tutto questo. Certo sarebbe stata un’impresa difficile, piena di insidie, perché sulla famiglia si sa il dibattito è sempre controverso e composto da mille sfaccettature.

Quando si parla poi di famiglie composte da genitori omosessuali si scatena il putiferio. Genitori gay con figli avuti con la fecondazione eterologa. Tutti con la verità tra le mani, tutti pronti a difendere le proprie convinzioni e il proprio concetto di famiglia dalla minaccia che incombe. L’altro, il diverso che fa sempre paura. E tutto nel momento in cui anche la Finlandia (anche la Finlandia) dice sì alle nozze e adozioni gay.
Solo per citare alcuni commenti “social” dopo la prima puntata:

 

“Dopo il modo ideologico con cui avete trattato la “famiglia” nella prima puntata è già tanto che abbiate toccato l’1%, adesso chiudete e a casa.”
“….con il 2% di share….ho il sospetto che RAI YOYO abbia fatto di meglio…d’altronde anche i bambini capiscono cosa è meglio guardare…”
“devo pagare il canone a un’azienda che propone programmi così stupidi???”
“#QuestioniDiFamiglia”?!
Oltre alle adozioni o storie di bullismo non vedo famiglie qua!
Vedo solo coppie che vogliono divorziare, lgbt che provano a imitare qualcosa che non possono avere per natura comprandolo!
Per voi é questa una famiglia!?
Qualcosa di rotto o una imitazione?!”
“questioni di famiglia????? mi parlasse della sua famiglia la conduttrice , almeno sappiamo come mai gli è venuta sta idea.”
“Mi state facendo rimpiangere la Rai ai tempi della Democrazia Cristiana, almeno certe schifezze le censurava! Oggi soprattutto Rai Tre censura chi non la pensa come i compagnucci.”
“Famiglie arcobaleno? Perché vi ostinate a mostrare come quotidiane le cose che tali non sono? Parlate piuttosto dei veri problemi delle famiglie,come il trattamento che le mamme con figli piccoli subiscono nei luoghi di lavoro… O per parlare di questo non vi danno finanziamenti?!.”

 

Conosco personalmente una famiglia arcobaleno e credetemi quando vi dico che sì sono una famiglia autentica con le stesse e identiche problematiche delle famiglie ‘tradizionali’. Io non vedo differenze e neanche i miei figli.

Ma ve l’immaginate come avrebbe proposto l’argomento Barbara D’Urso (per citarne una)? Avvolta in una luce che sa di santità avrebbe lanciato lo scoop in una valle di lacrime. E invece il racconto parlato e non continuamente annunciato ne ha pagato le conseguenze.
Non è necessario essere filosofi o fini conoscitori delle “questioni di famiglia” proposte da Marida Lombardo Pijola per apprezzarne i contenuti. Io avrei preferito continuare a vederlo quel programma, per “vedere l’effetto che fa”.

Africa Stop Ebola: musica contro il virus

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africastopebolaI musicisti africani uniscono le forze contro l’epidemia: si chiama Africa Stop Ebola, ed è un brano scritto per aumentare la consapevolezza dei pericoli tra le persone ed aiutarle a capire come proteggersi dal virus.
Il “nemico invisibile”, così come viene cantato dagli artisti in inglese, francese e diversi dialetti dell’Africa occidentale, si può combattere attraverso la prevenzione ed una serie di accorgimenti pratici: attenzione all’igiene, ascoltare i consigli dei medici, non toccare i malati o morti.
Il testo è stato scritto dagli stessi musicisti e Carlos Chirinos, un ricercatore specializzato in dinamiche comportamentali della comunicazione.
Il brano mette insieme la migliore musica africana e il reggae con un duplice obiettivo:  da una parte cercare di fare chiarezza attraverso messaggi inequivocabili e sfatare i miti che circondano la malattia, dall’altro ricostruire la fiducia nei cittadini nel servizio sanitario, trasmettendo un messaggio di speranza.
La canzone  è  già in rotazione nelle stazioni radio di tutta l’Africa, così come il videoclip, tramesso dalle televisioni anche in Europa e negli Stati Uniti.
Africa Stop Ebola si può anche acquistare negli store digitali (ad esempio qui )
Tutti i proventi sono destinati a Medici Senza Frontiere, che combatte l’epidemia sul territorio.

 

IL MORTO CHE CAMMINA

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CaparezzaùGoodbyeMalinconia

Logo della canzone di “Malicònia”, hit di Caparezza nel 2011

“Cervelli in fuga, capitali in fuga, migranti in fuga dal bagnasciuga/È Malincònia, terra di santi/subito e sanguisuga/Il Paese del sole, in pratica oggi Paese dei raggi UVA/ E poi se ne vanno tutti!/Da qua se ne vanno tutti!/Non te ne accorgi ma da qua se ne vanno tutti!”. Così cantava il rapper pugliese Caparezza nella sua Goodbaye Malicònia ed era il 2011.  A distanza di 3 anni i dati sull’emigrazione raccontano di un forte aumento di chi va via dal nostro Paese: “Al primo gennaio 2014 sono 4.482.115 i cittadini italiani residenti all’estero iscritti all’Aire (Anagrafe degli italiani all’estero), con un aumento in valore assoluto rispetto al 2013 di quasi 141 mila iscrizioni (+ 3,1 per cento nell’ultimo anno). La maggior parte delle iscrizioni sono per espatrio (2.379.977) e per nascita ( 1.747.409). E’ quanto emerge dal Rapporto italiani nel mondo 2014, realizzato dalla fondazione Migrantes”.

 

Ieri nella puntata Di Martedì condotta da Giovanni Floris su La7 un imprenditore italiano di 26 anni, Augusto Marietti, ha spiegato come a 23 anni ha visto il suo progetto “Mashape” approvato negli Usa e ora è uno degli attori della Silicon Valley: lo stesso progetto fu ignorato e bocciato da banche e finanziatori italiani. Secondo Marietti l’Italia è “un morto che cammina”.

 

Sono due istantanee di un Paese che si sta svuotando fisicamente e culturalmente. Gli italiani, nonostante la propaganda della paura, son tornati ad essere un popolo di migranti mentre quelli che arrivano sulle nostre coste non sono visti come un’opportunità. E non sono visti come opportunità tutti quegli attori di una resistenza civile chiamata cooperativa sociale, salvaguardia di un parco pubblico o recupero di un edificio abbandonato, gestione di un bene confiscato o volontariato nei luoghi della sofferenza. Tutto ciò avviene mentre da giorni si è fermi sull’articolo 18, immobili a spiegare che eliminando diritti arriverà la ripresa per questo Paese mentre sono altre le priorità. Una su tutte è accorgersi dei tanti i giovani, uomini e donne che sono rimasti e che continuano provarci: se il morto Italia cammina è soprattutto grazie a loro.