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Bamboo, esplorando il suono

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Secchi di plastica, chiavi inglesi, tubi, piccoli elettrodomestici, vecchi cartelli stradali, cerchioni di automobili, taniche, padelle. Non è un elenco degli oggetti in promozione di uno svuota-cantine, bensì parte della dotazione musicale di una delle più eclettiche band italiane.
Cinque ragazzi con la passione per le percussioni e i suoni di ogni tipo si mettono insieme e iniziano a trasformare oggetti di uso comune in veri e propri strumenti musicali.
E’ la storia dei Bamboo, gruppo di percussionisti urbani che si è fatto conoscere in tutta Italia grazie ad un lungo tour che conta più di 70 date: il loro show dapprima incuriosisce, poi coinvolge, infine trascina.
Gli oggetti sul palco vengono svuotati della loro funzione naturale per assumerne diverse ed inaspettate.
Un’esplorazione che va alla radice del suono, scavando nel suo aspetto primordiale: ogni cosa produce un suono e ogni suono può diventare musica: che siano solo le mani e il corpo dei musicisti, i rumori dell’acqua che utlizzano in uno dei loro brani, o in tutto il loro arsenale di strumenti bizzarri sopra il quale pestano come forsennati.
Un compendio del loro lavoro fin qui è l’ottimo dvd “What’s in the cube?”, che racchiude la prima fase della loro carriera.
Dategli un’occhiata su youtube se volete prendere le misure con un modo nuovo di fare musica.
Non lamentatevi però se poi vi verrà voglia di percuotere come degli invasati tutti gli oggetti di casa vostra.

NELL’ITALIA ARRESA NON BASTA L’ECONOMIA

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Dal rapporto Coop uno Stivale sempre più lacerato e depresso

Dal rapporto Coop uno Stivale sempre più lacerato e depresso

Dopo il “venerdì nero” del 29 agosto con i dati sulla deflazione, il Rapporto Coop ci consegna altri numeri drammatici per il nostro Paese. L’elenco della involuzione economica è lunghissimo: divario Nord-Sud, la disoccupazione generale a oltre il 12% e quella giovanile al 43, la diminuzione dei redditi degli under 35 del 17%. Eppure c’è un dato che spaventa ancora di più e non riguarda i parametri economici.

 

 

Il Paese rinuncia e non solo ai beni materiali. Si rinuncia alla vita politica, sociale e di comunità. Quasi metà della popolazione non vota, il 36% non ha un’opinione politica, 7 su 10 non hanno fiducia nelle istituzioni. E ancora si rinuncia ad avere figli, 2 su 10 decidono di non averne e ciò riguarda anche i residenti immigrati. E anche la religione non è messa bene con il 67% che non va a messa. Questa miscela esplosiva della rinuncia, della sfiducia e di un impossibile cambiamento produce una sola conseguenza: lasciare il Belpaese. Solo nell’ultimo anno ben 80mila italiani si sono trasferiti all’estero.

 

 

Questo blog nasce proprio dalla convinzione che la buona economia si basa anche su altri parametri e non solo sui soldi. Essa nasce da un benessere complessivo, da un tessuto sociale e cultura, da un impianto di idee e valori che questo Paese ha perso. In queste condizioni non è dato sapere se l’Italia potrà attendere altri mille giorni né come saremo ridotti fra 3 anni. Bisogna fare prima, occorre fare presto: tutti siamo chiamati a reagire di fronte alla resa.

 

 

 

Bombino, la via tuareg del rock

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bombinoQuella di Bombino è una bella storia.
Il suo vero nome è Omara Moctar, è nato nel 1980, viene da Agadez, in Niger, ed è un tuareg della tribù Ifoghas.
A 10 anni, a causa della rivolta del suo popolo nel paese africano, è costretto a fuggire in Algeria, insieme al padre e alla nonna.
E’ lì che conosce lo strumento che gli cambierà la vita: Omara inizia a strimpellare una chitarra e si appassiona, fino a quando non incontra Haia Bebe, chitarrista tuareg che gli insegna i trucchi del mestiere.
Sarà proprio lui a dargli il nome d’arte con cui lo conosciamo:  Bombino infatti è una storpiatura dell’italiano bambino.
Il ragazzo cresce, e con lui la sua passione. Prima suona nella band di Haia Bebe, poi in Algeria e in Libia, dove conosce la musica di Jimi Hendrix e Mark Knopfler. E’ proprio grazie a questi artisti e all’incontro con altri musicisti che la sua formazione si amplia di elementi e mescolanze. Musica rock e cultura tuareg: per mantenersi Bombino fa il pastore fino a quando, nel 1997, riesce a tornare a casa sua, ad Agadez.
Da quel momento in poi è un crescendo di musica e popolarità. Omara non smette mai di suonare, forma diverse band e perfeziona la propria tecnica, fino a trovare uno stile che lo rende unico: quello che mescola il rock e il blues alla cultura millenaria dei popoli del deserto.
Affascinato dalle sonorità del musicista berbero, il regista Ron Wyman decide di raccontare la sua storia in un documentario sui tuareg.
La sua popolarità cresce con la registrazione dell’album “Agadez” del 2011, che incuriosisce Dan Auerbach dei Black Keys che decide di produrre “Nomad”, il nuovo album di Bombino. E’ così che il ragazzino appassionato diventa un musicista di fama mondiale, che suona in tutto il mondo e si fa conoscere anche nel nostro paese (lo scorso 23 agosto è stato tra i protagonisti della Notte della Taranta di Melpignano, in Salento)
Dotato di grande tecnica, la sua è una musica sanguigna che affascina e confonde. Un tocco inconfondibile e il cantato il lingua berbera, atmosfere arabeggianti e arrangiamenti robusti: l’ascolto di “Nomad” è un viaggio che vale la pena di compiere, perché la musica di Bombino unisce due mondi che si conoscono a malapena  e che non vengono in contatto quasi mai.

Via dei Matti numero Zero

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Oggi sono stato in Via dei Matti numero 0. Ci vado spesso con la mia famiglia e porto con me le mie due creature che poi quando sono lì si divertono pure. Io meno.

Oggi però in Via dei Matti numero 0 ero con mio papà. Mi sono fermato ad osservare le persone intorno a me ed è successo qualcosa che mi ha in parte raccontato le storie di chi in quella clinica ci sta notte e giorno e dove di giorno si aspetta la notte, che non arriva mai, e quando alle otto vanno tutti a letto l’unico sogno che gli rimane da fare è quello di tornare a casa. Niente di più.

E invece c’è Dolores legata ad una carrozzina perché è ‘spostata’, che si prende tutte le carezze e i baci di un figlio che è ‘figlio’ che nella sua lingua le dice: “Mi amor!”. Che le prende la faccia tra le mani e non sa più dove baciarla. Accanto a lei Paolina che piange ancora un marito che dieci anni fa se ne è andato. E’ lucida, consapevole che anche se pienamente autonoma e indipendente, i suoi due figli ‘scapoli’ la lasceranno per sempre lì. Giovanna invece impreca. Ce l’ha con i fantasmi che la tormentano, fa un gesto continuo con le mani per scacciarli, ma sono sempre lì. Uno più di tutti non le dà pace: un figlio perso all’età di ventiquattro anni. Poi c’è Alvaro. Il ‘nonnetto’ di tutti che il prossimo 10 agosto compie 106 anni e che alle 11 si mette al suo posto e aspetta il pranzo delle 12. In silenzio, nessuna parola.

E poi c’è mio padre che come tutte le domeniche offre il caffè a tutti. E loro sono lì che lo aspettano, perché  non hanno soldi nelle loro borsette ma solo medicine.
In quel posto ci sono le storie di chi ha perso tutti i ricordi. Di chi non riconosce i propri cari e che scambia me per un marito o un nipote.

Me ne sono andato con gli occhi lucidi, con la consapevolezza che la prossima volta qualcuno non lo rivedrò.

E’ agosto, un mese terribile per loro. Insieme al caldo si accentua un profondo senso di solitudine. Perché infondo, loro, vogliono solo tornare a casa.

A COSA SERVE L’IMPEGNO CIVILE

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Le donne della Terra dei fuochi premiate per il loro impegno civile

Le donne della Terra dei fuochi premiate per il loro impegno civile

Quanto conta fare comunità, impegnarsi sul territorio difendendolo da mafie e disastro ambientale? Conta molto e diventa l’ultimo baluardo, soprattuto al Sud. In Campania prosegue il Festival dell’Impegno civile, il tour di due mesi tra beni, terreni e aziende confiscate alle mafie.

Lo scorso 11 luglio alla Casa del giornalista, bene confiscato ai Quartieri spagnoli, è stata consegnata una targa alle donne della Terra dei fuochi che da anni si battono contro ecomafie, biocidio e speculazione. Sono donne che si sono trovate contro non solo la camorra interessata, ad esempio, alla discarica di Chiaiano ma anche lo Stato che voleva aprirla. E quelle stesse donne, il giorno dopo, erano al Fondo rustico Amato Lamberti, terreno confiscato ai potenti clan della zona nord di Napoli, per organizzare una delle serate del Festival Stop Biocidio.

In quel terreno, oggi, si fa produzione di frutta e di vino e vi lavorano i giovani di quella periferia. Se ci sono istituzioni che non danno una mano rinasce la speranza in un’altra: al Comune di Casal di Principe torna Renato Natale sindaco. E domani la tappa del Festival toccherà proprio quel territorio.  “Una tappa organizzata con Avviso Pubblico anche per denunciare le falle dell’attuale normativa sullo scioglimento dei comuni. Ma pure per incontrare le #storieperbene di quegli amministratori pubblici che combattono le mafie e dell’esperienza contro l’autismo de La Forza del silenzio”. Così dicono gli organizzatori che mettono al centro gli amministratori onesti: “Incontreremo le storie #perbene di amministratori che si sono spesi ed ogni giorno si battono contro la camorra e il malaffare.

“Lo faremo con Avviso Pubblico, l’associazione che dal 1996 collega e organizza oltre 250 Amministratori pubblici concretamente impegnati a promuovere la cultura della legalità democratica nella politica. Ma sarà un momento utile anche per denunciare la sostanziale inefficacia dell’attuale legge sullo scioglimento dei comuni. Da un lato perché non è possibile che non venga estesa alle amministrazioni maggiori come le regioni, dall’altro perché non va ad incidere su settori nevralgici, dagli uffici tecnici alla polizia municipale, che spesso, soprattutto in piccoli comuni, sono esposti alle infiltrazioni criminali quanto e a volte più dell’organismo politico”. Gli organizzatori del Festival dell’Impegno Civile, prima manifestazione in Italia interamente realizzata sui beni confiscati alle mafie, presentano così la ventesima tappa della kermesse promossa dal Comitato Don Peppe Diana e da Libera Coordinamento Provinciale di Caserta, che si terrà domani dalle 16,30 a via Bologna, in quella che era la casa del capo dei casalesi Francesco Schiavone ed oggi è la sede de “La forza del silenzio” Domani, moderati dal giornalista di Avvenire Toni Mira, con il viceministro Bubbico ci saranno Giovanni Corona,  Sostituto Procuratore di Napoli Nord, il Questore di Caserta Giuseppe Gualtieri, Pierpaolo Romani di Avviso Pubblico e diversi amministratori del territorio. Tra questi, naturalmente, il sindaco di Casal di Principe Renato Natale, la cui amministrazione, tra i primi atti, ha siglato l’adesione ad Avviso Pubblico.

“Camorra e malaffare si combattono anche con progetti concreti di sviluppo territoriale – affermano gli organizzatori del Festival – su questo, per il sud e la Campania, chiederemo un impegno concreto del governo. Noi continuiamo a fare la nostra parte, coinvolgendo anche nuovi partner pubblici e privati per i progetti legati ai beni confiscati. In settimana, ad esempio – concludono i referenti del Comitato Don Peppe Diana e di Libera Caserta – saremo a La Balzana di Santa Maria la Fossa per presentare un’idea progetto di riutilizzo volta alla valorizzazione produttiva di questa straordinaria azienda agricola che, ad anni dal sequestro e dalla confisca, ancora resta incredibilmente abbandonata”. Non solo money, l’economia (e il Sud) riparte dalla comunità e dall’impegno civile.

Guardare un concerto nel ventunesimo secolo

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black keysUn paio di sere fa sono stato al concerto dei Black Keys all’Ippodromo di Capannelle di Roma.
Non voglio parlare del live in sè, della scaletta, dell’acustica o della performance della band.
Mi interessa piuttosto l’analisi del fenomeno, ossia la fruizione di un grande evento nel 2014.
L’evento di massa che spinge migliaia di persone a pagare un biglietto non proprio a buon mercato (45 euro, compresi i diritti di prevendita), a mettersi in viaggio in una città che di certo non aiuta la mobilità e il parcheggio, fare una fila considerevole e condividere con molti altri sconosciuti un paio d’ore di buona musica.
Fin qui nulla di nuovo, di strano o di diverso dal solito.

Quello che però mi stupisce è la trasformazione dell’atteggiamento delle persone nell’epoca dei social network e dell’apparire ad ogni costo.
Il poter dire “io c’ero” ad una potenziale sterminata platea, condividendo sulle piattaforme virtuali prove tangibili della propria partecipazione.
Gli smartphone così, diventano i protagonisti indiscussi.
Quando il concerto inizia, si levano al cielo centinaia di mani armate di telefoni.
Un bosco di braccia tese (per dirla con Mogol-Battisti) ed illuminate, pronta a carpire ogni istante dell’esibizione.
Fare il video dell’inizio della performance. Fare il video di una canzone. Fare il video di tutto il concerto.
Quello che significa, in verità,  è guardare l’intero live con un braccio alzato, sfidando le leggi della fisica e della resistenza degli arti, ed impedendo in parte la visuale a chi si trova dietro e ha qualche centimetro di meno.

Perchè? Qual è il senso di questa azione così automatica nell’epoca in cui viviamo?
Così tante persone che sentono l’esigenza di dover riprendere il concerto, non di viverlo. Non di partecipare attivamente, di lasciarsi abbandonare alla musica e alle emozioni che trasmette.
Vale davvero la pena di non essere libero di ascoltare per poter avere il magro bottino di un video girato in bassa qualità, con un’inquadratura tutt’altro che salda e con un audio molto discutibile?
Questo cercare a tutti i costi di imprimere il momento, vanificando l’unicità dell’evento. Oppure l’esigenza di raccontare al mondo la propria partecipazione al concerto, condividendo immagini e video sui social network o incrementando di qualche unità le visualizzazioni sul proprio canale youtube (salvo poi verificare che su youtube i momenti salienti del concerto sono già stati caricati in alta qualità  da qualcuno che le ha registrate con mezzi tecnici certamente superiori).
Il discorso è complesso, e non si ferma alle riprese con il cellulare, certamente aspetto più evidente del passo dei tempi.

E’ l’intero atteggiamento di fronte ad un evento di questo tipo che negli ultimi anni si è trasformato.
L’attenzione, per esempio.
Andare ad un concerto è sempre meno reale e sempre più realtà virtuale, mediata dalle nostre abitudini.
Un pubblico abituato alle possibilità  pressoché infinite del web, può aver già visto l’esibizione della band in questione decine di volte, guardando concerti registrati a migliaia di chilometri di distanza, con il potere di passare da una canzone all’altra, mandando avanti i momenti più noiosi.
E proprio come se guardasse un video su youtube, presta un’attenzione sempre meno intensa a quello che succede sul palco, prendendosi il lusso di parlare a voce alta durante le canzoni che non conosce o che ritiene poco interessanti e di entusiasmarsi  senza freni sulle hit, per le quali è riservato, oltre all’urlo a squarciagola del testo anche un surreale cantato delle parti musicali.
Un pubblico che a volte ha già la scaletta in tasca, e di tanto in tanto sbircia sul proprio smartphone quale sarà il pezzo successivo, inscatolando la spontaneità del momento e vanificando ogni sorpresa.
Un pubblico esigente e spesso maleducato, che utilizza l’artista come jukebox personale e non tributandogli il rispetto che merita nelle proprie scelte artistiche,  borbottando durante i pezzi del nuovo disco (che non conosce) e chiedendo a gran voce di suonare “quelle vecchie”.

Il concerto non è più partecipazione, condivisione, evento di massa, ma si trasforma in un individualismo esasperato. Vogliamo che quel momento sia nostro, strappato dal contesto e rinchiuso dentro il nostro cellulare, per poterlo riutilizzare a piacimento. Desideriamo il potere di decidere quello che succede sul palco o vogliamo saperlo prima che accada.
E’ il consumismo delle emozioni, la possibilità di avere tutto e subito e di pretenderlo senza aspettare, stancandocene presto ed esigendo sempre qualcos’altro.
Il paradosso forse è proprio questo. Siamo la generazione più informata e con le maggiori possibilità tecnologiche della storia, ma stiamo perdendo di vista la realtà.
Ascoltare, osservare, battere le mani, vivere il momento e condividerlo con gli altri sono azioni naturali di cui dovremmo provare a riscoprire la semplicità. Perché tutto sommato, siamo fatti di carne, mente e sentimenti.

 

Piccola impresa meridionale

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Il parco Peppino Impastato nel quartiere Scinà di Lamezia Terme

Il parco Peppino Impastato nel quartiere Scinà di Lamezia Terme

Trovarsi a Lamezia Terme per discutere di mafie, giornalismo e malaffare al Festival Trame e poi scoprire un’altra Calabria o forse quella vera. Con Danilo Chirico, giornalista e presidente dell’associazione DaSud, siamo entrati nel parco Peppino Impastato al quartiere Scinà del comune calabrese, ua periferia ad alta densità mafiosa. Il caso vuole che, il Festival Trame e la scoperta di questo posto arrivino nei giorni della visita di Papa Francesco che ha lanciato il suo anatema contro i mafiosi.

 

Il grande parco pubblico era abbandonato da due anni e una rete sociale con l’Arci in prima fila ha realizzato un’impresa sociale per far vivere lo spazio verde. Bar, attrezzature sportive e giostrine, una sala convegno e proiezione,  progetti di sport per tutti, un festival di musica in programma, spazio per la cucina locale: sono alcune delle attività in previste nel parco. Non è stato semplice, sono arrivate le intimidazioni e i quotidiani atti vandalici per impedire l’apertura dello spazio. Eppure Gennaro e tutti gli operatori sociali insistono creando un polmone civile tra le dimore delle due principali famiglie famose.

 

Come Lamezia la rete sociale è in cammino anche a Crotone. Intorno alla cooperativa sociale Agorà, dalla Caritas all’Arci passando per Libera, si lavora per un’accoglienza possibile ai migranti e si mettono al centro i beni comuni. Anche in questo il recupero di una villa comunale per restituire ai cittadini e ai bambini un luogo di socializzazione. Pure qui non sono mancati gli episodi di intimidazione, puntualmente rimandati al mittente.  Esiste dunque una Calabria che va raccontata a gran voce, esiste un Sud a cui un film recente di Rocco Papaleo aveva azzeccato lo spirito e l’essenza: una piccola impresa meridionale.

Contro la natura

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Solstizio d’estate, stagioni che passano, clima in mutamento.
La vigilia della bella stagione guastata dal maltempo in tutta Italia, le cosiddette “bombe d’acqua” che mettono in ginocchio le nostre città.
Altrove, in altri continenti, la potenza della natura che terrorizza l’uomo.
L’Uragano Cristina che ha spaventato il Messico e fa tornare alla mente la terribile Katrina, che nel 2005 ha portato la sua devastazione negli Stati Uniti, uccidendo oltre 1800 persone e causando danni incalcolabili.
La civiltà umana che da secoli si sforza per avere tutto sotto controllo, impotente di fronte alla natura.
Il collegamento che mi viene automatico è quello con un disco uscito all’inizio di quest’anno: “Canzoni  contro la natura” degli Zen Circus, band italiana che riesce a rappresentare con vivido realismo il presente e l’immaginario moderno.
Una provocazione certo, ma anche un futuro apocalittico in cui l’uomo, sconfitto dalla forza della natura, è costretto a giocare un ruolo a cui non è più abituato.
Il dominio umano sulle altre specie animali e il suo controllo pressoché totalizzante nei confronti della vita sul pianeta, viene messo a dura prova attraverso una serie di interrogativi.
Se gli animali cominciassero ad organizzarsi/E lentamente progettassero di sterminarci/Se non ci fosse alcun giudizio universale/In quale modo scinderesti il bene dal male?
Una visione che attraversa l’intero disco degli Zen Circus, mediante le storie e la quotidianità che si trasformano in canzoni per raccontare la natura dell’uomo, dei suoi riti e dei suoi vizi.
Con un altro interrogativo che dà senso al tutto: e se Dio fosse un albero di tiglio?
L’umanità, i suoi errori e i suoi orrori vengono così sviscerati in maniera struggente  ed ogni illusione diventa vacua, ogni speranza privata di senso.
Dalla natura dell’uomo, raccontano gli Zen Circus, non esce quasi mai nulla di buono: “è una legge di tutto il creato/il potere ha il male integrato”.

 

GLI INDIGNATI

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No. A questo stravolgimento dell’informazione noi non vogliamo assistere.

La nostra sete di giustizia non è appagata dalla diffusione della fotografia dell’assassinio di Yara. Non ci sentiamo meglio se conosciamo i dettagli in cui quel padre ‘folle’ ha ucciso nella notte moglie e i figli.

No. Questa non è l’informazione che vogliamo!

Non vogliamo che gli assassini vengano annunciati come se fossero stati nominati al GF, né tantomeno foto in cui tutti quelli che possono essere riconosciuti, a parte gli indagati, potrebbero subire conseguenze.

Ci sono figli che vanno tutelati, che non possono pagare colpe di altri e in un paese come il nostro dove la sete di giustizia si trasforma in accanimento, in voyeurismo, in qualcosa di macabro e osceno l’informazione ha una responsabilità troppo grande per esserne esonerata.

I giornalisti, tutti, dovrebbero ribellarsi al metodo del ‘mostro’ in prima pagina e agli annunci più da show di prima serata che altro. Questo è quello che, noi redazione del Giornale Radio Sociale, ci sentiamo di dire.

Annullare i confini

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Olga Bell è nata a Mosca, a sette anni si è trasferita in Alaska, ora vive a Brooklyn e canta in russo.
Da questa rimescolanza di culture nasce la sua musica, e il suo ultimo disco, “Krai”.
Per noi, abituati alle musicalità angolfone, fa un effetto un po’ strano l’idioma russo in primo piano. Una scelta lesscale che suggerisce un ritorno alle radici; l’effetto tuttavia è tutt’altro che disturbante.
Sarà perchè la voce di Olga entra prepotente nelle corde migliori dell’ascoltatore, modellando tutti gli spigoli.
Sarà perchè “Krai” è un disco denso ed intimo, moderno e dirompente, che mescola synth-pop ed elettronica al folk dal gusto esotico.
Sarà che il il senso del tutto sembra essere l’assenza di limiti: unire i contrasti, smussare gli angoli, annullare i confini.
Del resto, Olga è un ex enfant-prodige del pianoforte, con tanto di diploma al Conservatorio, ma allo stesso tempo membro effettivo dei Dirty Projectors, band statunitense di rock sperimentale che vanta collaborazioni con artisti del calibro di Bjork e David Byrne.
Annullare i confini si diceva: non è un caso che ognuna delle  nove tracce che compongono “Krai” raccontano di un territorio di frontiera (krai in russo, per l’appunto).
Nove viaggi in altrettante terre attraverso la musica e le parole, che a volte si rifanno ai paesaggi o alle persone che le abitano, altre ai miti, alle leggende dei luoghi raccontati.
Con la semplicità delle belle cose, un passo dietro l’altro, ci facciamo prendere la mano ed  accompagnare leggeri attraverso le frontiere che non pensavamo di poter mai valicare.