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10 cover belle di Fabrizio De André

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deandreE’ da un po’ che mi frulla in testa di scrivere qualcosa su Fabrizio De André e mi piace farlo senza che ci sia, come si fa in questi casi, una ricorrenza particolare, come l’anniversario della nascita o quello della scomparsa.

 

Dentro la mia vita Fabrizio De André ha un posto ben definito, a metà tra la persona cara e la guida spirituale; è qualcuno su cui poter contare sempre quando le cose sembrano non avere una spiegazione, insieme al conforto delle proprie piccole cose quotidiane.
Non sono uno di quelli cresciuti con la sua musica, con i dischi e le cassette dei genitori ascoltate in automobile, come per molti della mia generazione. Ai miei piaceva Lucio Battisti ma in generale, non sono mai stati affezionati in modo particolare a nessun artista tanto da tramandarlo a me e mio fratello.
Ho ignorato De André fino all’adolescenza, conoscendo di traverso le sue opere più famose e  ascoltandolo distrattamente quando c’era l’occasione.
Mi piace pensare che Fabrizio mi sia venuto a cercare, con un’ insistenza sempre maggiore.
C’è stato un periodo in cui tutti mi parlavano di De André, tanti piccoli segnali verso la stessa direzione. In ogni caso percepivo qualcosa di forte: chiunque me ne parlasse lo faceva con una spinta e un calore che non potevano restare indifferenti, come se non fosse solo musica, non fossero solo canzoni. C’era qualcosa di più. Qualcosa che ho scoperto piano piano dal giorno in cui ho iniziato a entrare nel suo mondo e nei suoi racconti. Un’esperienza ha cambiato il mio modo di relazionarmi con la realtà.

 

Per tutte queste ragioni, ho sempre creduto che interpretare i brani di Faber non è mai un’operazione semplice. Alcuni ci sono riusciti efficacemente, altri meno.
Così ho pensato di raccogliere dieci cover di canzoni di De André, ben fatte e rispettose del suo spirito e della sua arte. Almeno secondo me.

 

Diodato – Amore che vieni, amore che vai
Ho conosciuto Antonio Diodato per caso, durante un concerto in cui lui e la sua band suonavano in apertura di un altro musicista.
La sua voce e il suo carisma mi conquistarono subito. Ma quello che mi fece dare un peso specifico al suo spessore artistico fu questa, struggente e bellissima cover, dopo qualche anno finita nella colonna sonora del film “Anni felici” di Daniele Luchetti.

Afterhours – La canzone di Marinella
Nel corso del tour dell’album “Quello che non c’è”, gli Afterhours cominciarono ad inserire in scaletta (spesso in apertura dei live) La Canzone di Marinella, anche questa divenuta colonna sonora, stavolta del film “Lavorare con lentezza” di Guido Chiesa.
Questa versione, elettrica e marziale, mi è sempre sembrata molto diretta.

Pfm e Antonella Ruggiero  – Tre madri
La storia della collaborazione tra la Premiata Forneria Marconi è Fabrizio De André attraversò gli anni 70 e culminò con l’indimenticabile tour del 1978: il miglior cantautore dell’epoca insieme alla migliore band in circolazione, per una serie di concerti immortalati in due dischi live e arrangiamenti tanto perfetti da essere riproposti da De André in tutta la sua carriera successiva.
25 anni dopo la band tornò a riproporre quei brani: il tour “Pfm canta De André” durò diverse stagioni e fu un successo di critica e pubblico.
Tre madri è uno dei pezzi più intensi del concept “La buona novella” del 1970. La voce meravigliosa di Antonella Ruggiero la impreziosisce ancora di più.

Eugenio Finardi – Il ritorno di Giuseppe
“La buona novella” è forse il disco che preferisco della produzione di De André.
L’allegoria sulla vita di Gesù che unisce poesia, umanità e politica resta una delle opere più attuali della musica italiana.
Eugenio Finardi intepreta qui uno dei brani più significativi di quell’album, riuscendo ad esprimere in pieno le atmosfere che lo caratterizzano.

Francesco Di Giacomo e Morgan – Bocca di rosa
Nel 2005 Morgan decise cimentarsi nell’interpretazione e nel ri-arrangiamento di un altro concept fondamentale di Fabrizio De André, “Non al denaro, non all’amore né al cielo”, ispirato alla raccolta di poesie di Edgar Lee Masters “Spoon River Anthology”, con un disco che ne segue fedelmente la scaletta originale.
Oltre a questo omaggio, Morgan si è avvicinato più volte nel corso della sua carriera alla musica di Faber; qui in coppia con il compianto Francesco di Giacomo del Banco del Mutuo Soccorso, per una bella versione di Bocca di Rosa.

Kutso – Canzone dell’amor perduto
Insieme a La canzone di Marinella, la Canzone dell’amor perduto è forse il brano di De André più suonato da altri artisti.
Tra le molte cover mi piace sottolineare quella dei KuTso, contenuta nel loro album d’esordio, per la vivacità e la freschezza delle soluzioni sonore.

Discoverland – La guerra di Piero
Discoverland è un progetto che nasce dalla collaborazione tra Roberto Angelini e Pier Cortese con l’obiettivo di sperimentare riscoprendo pezzi importanti di musicisti e cantautori italiani e stranieri.
La loro versione de La guerra di Piero è molto diversa dall’originale ma non priva di fascino ed appeal.

Clementino – Don Raffaè
Durante la serata del mercoledì del Festival di Sanremo 2016, dedicata alle cover di brani celebri,  il rapper Clementino decise di cimentarsi nel non semplice compito di proporre il brano Don Raffaè.
Esperimento riuscito: personalizzata ma non snaturata, la canzone acquista qui una nuova veste, molto applaudita all’Ariston ed apprezzata dal pubblico.

Piero Pelù – Il pescatore
Per il decennale della scomparsa di Faber, nel 2009, Fabio Fazio dedicò una puntata speciale del suo Che tempo che fa al ricordo di numerosi artisti ed amici di Fabrizio.
Tra le interpretazioni da ricordare, la delicata Il Pescatore di Piero Pelù (negli anni successivi poi resa molto più energica nel live)

Cristiano De André e Mauro Pagani – Crêuza de mä
Il momento più emozionante dello speciale di Fazio fu senza dubbio quello finale. Cristiano De André e Mauro Pagani, in collegamento dal porto antico di Genova, eseguono una calda versione acustica di Crêuza de mä.
Atmosfere e suggestioni difficilmente descrivibili a parole.

Bonus track:

 

Runa Raido – La domenica delle salme
La domenica delle salme è forse il brano più politico e al contempo criptico di De André: un racconto appassionato e  doloroso della situazione sociale e politica a cavallo tra gli anni 80 e gli anni 90.
Nel disco “Il primo grande caldo” i Runa Raido la ripropongono in una inedita versione rock di grande impatto.

L’Italia immobile di Sanremo

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salamoia2All’inizio di questa edizione di Sanremo, Virginia Raffaele, nei panni ben riusciti di Sabrina Ferilli, ha scherzato su quanto il Festival sia uguale a quello del 1996 in cui la showgirl romana ha partecipato come valletta.
Vent’anni fa c’erano Elio e le storie tese ed Enrico Ruggeri, quest’anno pure”.
E’ una battuta che mi ha fatto riflettere: cos’è cambiato su quel palco negli ultimi vent’anni?

 

Non la qualità degli artisti in gara, con un numero variabile di eccezioni in ogni edizione.  In ogni caso, vent’anni fa non c’erano i talent show, a quanto pare il più grosso serbatoio di facce nuove. Quest’anno ne contiamo addirittura 8 su 20 (9 se consideriamo il nuovo cantante dei Dear Jack).
Cosa rimane e cosa vola via col tempo: in quest’epoca di consumismo musicale, è divertente l’esperimento dei bravissimi Oblivion che in medley a cappella ci fanno ascoltare tutti i brani vincitori in appena cinque minuti.
Vent’anni fa c’erano anche Aldo Giovanni e Giacomo (25 per l’esattezza) anche se mai prima d’oggi sul palco dell’Ariston, come ci tiene a sottolineare il conduttore Carlo Conti. Ma il pezzo che propongono (“Pnor figlio di Kmer”) è così vetusto che più che risate fa scaturire ricordi e sbadigli.
Lo sguardo al passato continua con Laura Pausini, ieri in gara e oggi superospite, che duetta con l’impacciata sé stessa del 1993.
Anche vent’anni fa si diede il timone a un conduttore “affidabile”: ma più del Pippo Baudo di ieri, il Carlo Conti di oggi è così scialbo da risultare superfluo. Equilibrato fino all’estremo, non incide, non fa domande interessanti agli ospiti, e riempie il teatro e le televisioni degli italiani di tanta, sempre affidabile, banalità.

 

Guardare al passato  senza affrontare il futuro. Il festival capita quest’anno in contemporanea all’acceso dibattito sulla legge Cirinnà. Sul palco, più di un artista espone i colori arcobaleno, a sostegno di una sacrosanta battaglia di civiltà. Forse sono più di venti, gli anni di ritardo del nostro paese sul tema delle unioni tra persone dello stesso sesso, ed è triste pensare che i diritti non siano assodati ma ancora motivo di dibattito e divisione.
Fuori dalla fascia protetta (guai a mostrarlo in prima serata), sale sul palco Elton John, scelta pluricriticata nelle settimane precedenti (o polemica montata ad arte) perché l’artista inglese è gay, sposato  e padre  grazie all’utero in affitto.
Nessuno scossone: Elton John si limita a cantare, e il conduttore si guarda bene dal concedere all’artista inglese il minimo spazio di discussione.

 

Subito dopo l’uscita di scena, Marta Zoboli e Gianluca De Angelis danno vita allo sketch dei coniugi Salamoia, e lo fanno vestiti da sposi. Sposi tradizionali, ovviamente.
Sono passati vent’anni ma sì, l’Italia è sempre la stessa.

 

I LAVORATORI SALVANO L’IMPRESA. E IL LORO LAVORO

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acciaio workers buyout 2La Zanardi è un’azienda tipografica storica, specializzata in libri d’arte.  Italcables di Caivano (Napoli), azienda metalmeccanica di livello internazionale, leader nella produzione di acciaio ad alto tenore di carbonio per cemento armato precompresso. a Sportarredo Group sc di Gruaro (Venezia). La CTC Project di Tolentino (Macerata). E ultima in ordine di tempo la Ora Acciaio di Pomezia. Sono solo alcune delle esperienze del workers buyout, termina inglese che identifica l’acquisto da parte dei lavoratori di un’azienda fallita. Un fenomeno sempre più diffuso che sta dando, probabilmente, l’unica risposta concreta alla chiusura di fabbriche e alle delocalizzazioni.

 

Come funziona? Di fronte al fallimento di un’azienda i lavoratori con il sostegno di Legacoop valutano insieme a consulenti la possibilità di acquisto dei macchinari o di affitto del ramo di azienda. Se il progetto è sostenibile, con il sostegno finanziario di Coopfond e Cfi, si costituisce una cooperativa che rimette in produzione gli impianti e, soprattutto, produce lavoro.

 

Il workers buyout sembra funzionare se si pensa al bilancio di una delle principali esperienze come la Zanardi: “Continuiamo ad essere prudenti – ha spiegato a un quotidiano locale Mario Grillo, presidente della cooperativa – ma anche fiduciosi per il prossimo anno: sono tornati i clienti importanti ed ora siamo in contatto anche gli editori minori. Abbiamo lavorato tutto il mese di agosto ed in questi giorni di stiamo producendo altri lotti significativi”.

 

Da Nord a Sud sono già una quarantina le esperienze di questo tipo che non vedono una giusta eco mediatica nel nostro Paese. Al contrario è stato il New York Times che ha dedicato nel numero in edicola il 9 aprile 2015 un ampio servizio alla storia della cooperativa Zanardi e al fenomeno dei workers buyout.

 

In un Paese dove lo sviluppo industriale è fermo da anni e la crisi brucia lavoro, non è il Jobs act a indicare la strada con “meno diritti per un salario”. Il workers buyout indica un’alternativa necessaria nella gestione cooperativa di un’impresa.

 

 

Latte e Sangue e il rap italiano

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latte-e-sangueQualche tempo fa mi è capitato di leggere un articolo che parlava piuttosto male del rap italiano. In sintesi, si sosteneva che fosse poco serio, di basso livello e banale ricettacolo di scarsi contenuti, e quindi senza speranza.
Elencando i buoni motivi per confutare questa tesi, mi sono venuti in mente una serie di realtà musicali  che considero un patrimonio importante per l’intera musica italiana.
Kaos, Rancore, Ensi, Murubutu, Colle der Fomento, Francesco Paura, Brokenspeakers, Egreen, sono i primi nomi che mi vengono in mente pensando a contenuti, originalità, ricerca, valore.
Ho pensato che banalizzare una complessità multiforme significa semplicemente non conoscere il fenomeno; dopo poco però mi sono reso conto che farne una questione di qualità dei singoli artisti non è neanche il centro del problema. Il fatto è che apprezzare il rap significa entrare nelle sue logiche e nelle sue geometrie, in una estetica a sé stante  che dimostra il proprio valore in un’amalgama fatta di originalità, metrica, flusso, forma e sostanza. E forse per questo, per alcuni, è difficile da afferrare.
In ogni caso, sono convinto che il rap è una delle forme espressive più efficaci e di impatto per raccontare quello che abbiamo intorno, sempre a patto che se ne abbiano le giuste capacità: è per questo che da qualche settimana gira nelle mie cuffie “Latte e sangue”, il nuovo lavoro che mette insieme il rapper calabrese Don Diegoh e la leggenda dell’hip-hop italiano Ice One.
Il primo ha da poco trent’anni, il secondo ha trent’anni di carriera alle spalle: un connubio strano che ha dato vita ad un album che, come un libro, va letto sottolineandone i singoli capitoli.
Dentro ci sono tante anime e tanti significati: ironia, amore, rabbia, ricordi che si mescolano per dare vita a brani con una identità forte, immediatamente riconoscibile.
Flussi di coscienza e storie personali raccontano la realtà con poesia e disincanto. I testi di Diego vanno dritti come frecce: non hanno fronzoli ma riescono allo stesso tempo ad avere una bellezza malinconica frutto della grande cura nella scelta delle parole e di una tecnica metrica impeccabile. Le strumentali di Ice One sono ricche di  fascino e capaci di far convivere in armonia elementi ed epoche differenti. Scelte musicali che non seguono le mode, ma sono così determinate ed accoglienti che sono belle oggi e lo saranno ancora di più tra dieci, venti o quarant’anni.
In un costante rimando col passato attraverso un numero sterminato di citazioni, si tocca con mano una necessità  espressiva dirompente.
Ho ascoltato questo disco tante volte e nella testa mi risuona una frase di Masito, uno dei tanti ospiti dell’album: “Talmente complessi che dobbiamo inventare parole per descrivere noi stessi”. In qualche modo è la sintesi di tutto questo: il racconto di un’epoca che “Latte e sangue” inquadra da un angolatura a cui non avevamo pensato.

“Trovano i soldi per le guerre, non per il lavoro”. Vangelo secondo Bergoglio

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bergoglio“Oggi si dice che tante cose non si possono fare perché manca il denaro. Eppure il denaro c’ è sempre per fare alcune cose e manca per farne altre. Ad esempio il denaro per acquistare armi si trova, per fare le guerre, per operazioni finanziarie senza scrupoli, si trova. Di questo solitamente si tace; si sottolineano molto i soldi che mancano per creare lavoro, per investire in conoscenza, nei talenti, per progettare un nuovo welfare, per salvaguardare l’ ambiente”.

 

Sono parole semplici. Parole che non sono state affermate con forza in questi giorni. E sono parole che hanno un valore multiplo se dette non da un sindacalista o un rivoluzionario, ma da un Papa. Bergoglio non le manda a dire e nel video messaggio per festival della Dottrina sociale della Chiesa  di Verona esprime una riflessione che viene taciuta dopo i fatti di Parigi. Dopo l’attacco nella capitale francese la Francia e tutti i Paesi europei si sentono improvvisamente in guerra, tanto da mettere in discussione libertà civili e privacy. Questo ha permesso allo stesso Hollande di mettere in discussione pure il patto di stabilità “affrontare le spese militari”. Insomma per la guerra l’economia va in deroga e trova risorse sugli armamenti, per la dignità delle persone no. I soldi, insomma, servono innanzitutto per ammazzare. I soldi come il cuore del problema e non della soluzione.

 

È dunque la parola di un Papa a legittimare il titolo di questo stesso blog di una persona laica e non credente: “Il vero problema non sono i soldi, ma le persone: non possiamo chiedere ai soldi quello che solo le persone possono fare o creare. I soldi da soli non creano sviluppo, per creare sviluppo occorrono persone che hanno il coraggio di prendere l’ iniziativa”. Non solo money, appunto.

Nel Sud abbandonato la mafia attacca i beni confiscati

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libera

La bandiera di Libera imbratta con una svastica al Fondo confiscato alla camorra di Chiaiano

«Il Mezzogiorno è stato cancellato dall’agenda nazionale e in alcuni casi i dati economici sono terrificanti. Peggio della Grecia». Così ha dichiarato Romano Prodi, ex presidente del Consiglio  e della Commissione europea. Parole che sgomberano il campo da dubbi sulla situazione del Sud e sul tracollo economico di Campania, Sicilia, Puglia, Calabria, Basilicata, Molise e Sardegna. Sono le stesse regioni in cui di questi tempi molti turisti italiani e stranieri godranno delle vacanze. Eppure gli indicatori economici segnano una sola verità: disoccupazione, povertà, zero welfare ed emigrazione. In queste condizioni di abbandono totale fanno le spese le esperienze di riscatto e di alternativa come la cooperazione impegnata nel recupero di beni, i terreni e le aziende confiscate alle mafie: dalla Calabria alla Campania è in atto un’offensiva senza precedenti.   Da una settimana giungono notizie di incendi e danneggiamenti. A Crotone hanno devastato il vivaio del terreno confiscato al clan Arena, uno dei più potenti della ‘ndrangheta. In Campania tra la provincia di Caserta e Napoli è un susseguirsi di attacchi: incendio ai terreni confiscati di Teano, fuoco all’azienda virtuosa della Cleprin di Sessa Aurunca e ultimo in ordine di tempo furti e svastiche contro il Fondo rustico Amato Lamberti di Chiaiano a Napoli.   Intanto la Sicilia affronta da sola il caos accoglienza e la Puglia vive il dramma dell’Ilva mentre si piangono ancora 9 morti nel disastroso incidente di Modugno. C’è un silenzio assordante sulle politiche per il Mezzogiorno, troppi fondi europei vengono destinati per grandi opere nelle regioni del Nord. In questo scenario la mafia sta organizzando la sua rappresaglia contro le esperienze più vive e innovative di economia sociale. Ormai il Sud è solo, molto vicino all’amata Grecia.    

Cannabis, 10 canzoni italiane

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marij

Nel nostro paese si discute nuovamente di legalizzazione delle droghe leggere.
Il nuovo progetto di legge, frutto del lavoro di un intergruppo parlamentare e firmato da 218 onorevoli, consentirebbe il possesso per uso ricreativo, la coltivazione, e la possibile apertura dei cosiddetti cannabis social club.
Negli ultimi anni la legislazione in merito al consumo di marijuana si è fatta via via più tollerante in diversi paesi del mondo: paesi come Olanda, Spagna, Stati Uniti, Uruguay, hanno sperimentato formule diverse, verso una maggiore tolleranza.
Storicamente però, l’utilizzo della cannabis ha dovuto fare i conti con la contrarietà delle leggi, e ciò ha fatto in modo che su questo argomento si scrivesse molto: la storia della musica è costellata di canzoni dedicate alla marijuana e in alcuni casi, come per il reggae e il ragamuffin, rappresenta un tema ricorrente.
Ma senza dover scomodare Bob Marley o Peter Tosh, anche la musica italiana ha ampiamente affrontato questo tema.
Elencare tutti i pezzi nostrani dedicati alla liberalizzazione delle droghe leggere sarebbe difficile e anche un po’ noioso. Così ho deciso di selezionare dieci pezzi significativi, anche per le diverse epoche storiche a cui appartengono, scavando tra i ricordi.

 

Stefano Rosso – Una storia disonesta
“Che bello, due amici, una chitarra e uno spinello”: siamo nel 1976, e con grande ironia, Stefano Rosso mette alla berlina  le ipocrisie e la falsa morale sulle libertà individuali. “Una storia disonesta” è una delle prime canzoni italiane a parlare apertamente di droghe leggere.

 

Eugenio Finardi – Legalizzatela
Alla fine degli anni 70 Eugenio Finardi pubblica l’album dal titolo emblematico “Roccando rollando”: sul lato B c’è “Legalizzatela”, pezzo che esprime senza mezzi termini le posizioni antiproibizioniste dell’autore e la necessità di marcare una differenza tra sostanze leggere e droghe pesanti.

 

Neffa – La mia signorina
Siamo nel 2001 e “La mia signorina” diventa uno dei tormentoni dell’estate.
Tutta Italia canta con Neffa, ma non tutti sanno che la seducente signorina che “brucia sempre” e che “cerca sempre il sole” è proprio la marijuana.
Il successo del singolo trasforma Neffa in una popstar: un deciso cambio di rotta per l’artista, considerato negli anni 90 tra i più influenti esponenti del rap italiano, prima con i Sangue Misto e poi da solista.

 

 

 

Sangue Misto – La Porra
I Sangue Misto sono una delle prime formazioni propriamente rap italiane.
Neffa, Deda e Dj Gruff pubblicano nel 1994 il loro unico album “SXM”, considerato una pietra miliare dell’ hip hop di casa nostra.
Sono anni in cui all’interno di quel movimento di ribadisce con forza il no alle droghe pesanti e una certa accondiscendenza verso hashish e marijuana (“Fumo la mia porra non mi pungo con la spada”, cantano nel brano “Cani sciolti”).
In questo senso,  “La porra” è certamente il brano più significativo.

 

 

 

Rino Gaetano – A Khatmandu
“Si fumava, non ci davano la sola”, cantava Rino Gaetano nella prima strofa di questa canzone, contenuta nell’album d’esordio “Ingresso libero”.
I riferimenti non sono espliciti, ma come spesso accade con i testi di Rino Gaetano, le parole vengono piegate a significati differenti. Secondo alcuni, in questo brano si raccontano le esperienze con sostanze psicotrope nella Roma degli anni ’70.
Pochi mesi prima Gaetano aveva inciso, con lo pseudonimo di Kammamuri’s, il brano “I love you Maryanna”, che secondo alcune interpretazioni, farebbe riferimento alla marijuana.

 

 

Articolo 31 – Maria Maria
Come “La mia signorina”, si tratta di un pezzo che ha scalato le classifiche, conquistando le grandi masse.
In uno dei loro primi successi commerciali, gli Articolo 31 giocano ampiamente sul doppio senso: difficile non capire chi sia la ragazza vestita di verde e il profumo buono che non va d’accordo tanto con i cani, anche per l’inequivocabile  videoclip che ha accompagnato il successo del brano nel 1994/95.

 

 

 

Punkreas – Canapa
Forse uno dei pezzi più significativi degli ultimi anni in tema di liberalizzazione.
Il testo di questa canzone offre una guida rapida alla coltivazione fai da te e illustra i benefici della cannabis sativa, che, nella parole della band lombarda, “potrebbe soppiantare petrolio e derivati, la plastica ed i farmaci a cui siamo abituati”

 

 

Claudio Bisio – La droga fa male
Nel 1991 Claudio Bisio non è ancora l’affermato  personaggio televisivo e cinematografico che tutta Italia conosce, ma è già un brillante autore comico.
Insieme a Rocco Tanica degli Elio e le Storie Tese, confeziona l’album “Patè d’animo”, vera perla di creatività comico-musicale. Dentro c’è il brano “La droga fa male”, dove, con la consueta dose di demenzialità, si affronta il binomio droghe leggere/droghe pesanti prendendosi gioco della falsa informazione sul tema delle sostanze stupefacenti, tra “iniezioni di spinelli” e “drogati con le crisi di astensione”.

 

 

Sud sound system – Erba erba
Impossibile non citarla. Uno dei maggiore successi della band salentina, e per molti, un vero e proprio inno alla liberalizzazione, che punta il dito contro le leggi proibizioniste che arricchiscono le mafie.

 

 

99 posse – All’antimafia
“All’antimafia” è un pezzo dei 99 posse contenuto nell’album “La Vida que vendrà”, pubblicato nel 2000.
Ad essere presi di mira sono la legislazione in merito alle sostanze stupefacenti e i poliziotti troppo zelanti nella sua applicazione.

 

 

Bonus track:

Danno: Full Time
A proposito di storia del rap italiano, chiudiamo questa piccola rassegna con un brano di Danno dei Colle Der Fomento, band da sempre impegnata contro il proibizionismo.
La canzone “dedicata a chi la vuole liberalizzata, a chi cerca la sua spiaggia immacolata”, affronta il tema con una buona dose di ironia.

 

 

Roma Brucia, per vivere il presente

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romabruciaLa vita non è fatta di cose incredibili, fantastiche. E’ fatta di piccole cose, ma quando non chiedi l’impossibile, quelle piccole cose si trasformano in realtà eccezionali”.
Mi piace partire da Osho, il famoso maestro spirituale indiano, per raccontare di Roma Brucia, il piccolo-grande festival musicale, giunto alla quarta edizione, che animerà la suggestiva location di Villa Ada nel prossimo weekend, 11 e 12 luglio.
Perché è proprio dal piccolo che nasce questa idea: valorizzare il territorio e i migliori musicisti che durante l’anno calcano i palchi dei locali, raccogliendone il meglio in un festival estivo che celebra “le band romane che spaccano”.

Un’idea semplice che sappiamo già essere quella giusta: le tre edizioni precedenti (le prime due nei quartieri simbolo della movida della Capitale, San Lorenzo e Pigneto, la terza a Villa Ada) hanno dimostrato che il pubblico sa apprezzare le iniziative che nascono dal basso, se la prerogativa di quello che si propone resta la qualità.

 

Qualità è la parola d’ordine per una parata di musicisti mai così eterogenea. Ventisette in tutto gli artisti che si alterneranno su due palchi (uno dei quali proprio sul laghetto), come da tradizione dell’evento, ad un prezzo assolutamente popolare: il biglietto costa 10 euro (5 se si arriva prima delle 18).
Dentro c’è di tutto, dall’alternative rock dei Sadside Project al rap di Gdb Famija e Assalti Frontali, dal folk di Ardecore e Muro del Canto al cantautorato di Emanuele Colandrea , fino al blues contaminato  dei Bud Spencer Blues Explosion o al percussionismo urbano dei Bamboo. Dai nomi meno conosciuti a quelli che attirano più pubblico, dal pomeriggio fino alla notte, con la possibilità di leggere, giocare, mangiare e suonare in acustico.

 

Piccole cose che crescono col tempo, dicevamo, fino a diventare qualcosa di significativo e di prezioso. Roma brucia di passione e fa i conti con sé stessa e con i propri figli, che siano essi artisti o spettatori. All’interno di una manifestazione che si chiama “Roma incontra il mondo”, è proprio Roma ad incontrare  sé stessa, la sua gente, la sua musica.
Non c’è niente che racconti meglio la contemporaneità come la musica di questi anni. Roma Brucia la mette tutta insieme nella sua varietà, restituendo alle persone tutto il bello della città in cui vivono e chiamando a sé chi lo sa apprezzare, in uno dei più affascinanti polmoni verdi della metropoli.
Farne parte significa vivere il presente.

 

(qui il programma della manifestazione)

Perché non siano solo chiacchiere e distintivo. Sulla comunicazione sociale e dintorni

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Quando ero all’inizio del mio percorso umano e professionale, Raffaele Palumbio e Enrico Bianda curavano una newsletter giornaliera all’interno della Summer School del Master in Comunicazione e Media dell’Università di Firenze diretto da Giovanni Bechelloni. Ricordo di aver scritto una volta, sotto pseudonimo, un articolo che criticava i comportamenti supponenti e fintamente impegnati di alcuni partecipanti e docenti. Era, allora, accaduto un putiferio sia per conoscere chi si celasse dietro lo pseudonimo sia sul contenuto dell’articolo. Oggi senza celarmi dietro ad uno pseudonimo devo constatare che il “piccolissimo mondo antico” della comunicazione sociale ha bisogno di protagonismi, di supposte competenze e avanguardisti dell’ultima ora. Sono però molto felice che finalmente la comunicazione sociale sia al centro dell’attenzione di così tante persone che, fino a non molto tempo fa, la snobbavano oppure la usavano strumentalmente per altri fini. La speranza è che non sia much ado about nothing. Sono ancora molti i temi che meriterebbero attenzione da parte dei (ancora troppo) pochi studiosi e dei professionisti che con fatica agiscono sul campo. Ne cito soltanto due. Il primo è quello di dare una legittimazione più forte al settore proponendo, ad esempio, di dare un peso anche economico alla progettazione della comunicazione così come avviene in tanti altri settori delle attività umane. Troppo spesso in nome di una supposta capacità diffusa di conoscere la comunicazione (tutti sono bravi a comunicare!, chi pensa e progetta con difficoltà strategie complesse di comunicazione sociale non viene riconosciuto professionalmente). Il secondo tema è come entrare dentro al mainstream operando un ribaltamento di significati e stereotipi. Oltre all’adozione di conoscenze e competenze sullo storytelling molto più avanzate di quelle attuali, si può giocare sul dare senso diverso a quello dato dal mainstream. Un bell’esempio recente pubblicato su repubblica.it è il lavoro di rivisitazione effettuato su uno spot della Coca Cola del 1971 che mette in evidenza le disastrose conseguenze sulla salute delle persone usando alcune caratteristiche del video di allora. Sono tentativi interessanti ma ancora molto isolati di promuovere un modo adulto di fare comunicazione sociale. E per contraddire Al Capone- De Niro, non saranno tutte chiacchiere e distintivo.

Per approfondire:
Lievrouw L. (2011), Alternative and activist new media, Polity Press, London

Spot Coca Cola 1971 https://www.youtube.com/watch?v=1VM2eLhvsSM

Il video rivisitato dal Center for Science in the Public Interest (http://www.cspinet.org/) https://www.youtube.com/watch?v=hSoT-o4w96o

Al Capone/De Niro https://www.youtube.com/watch?v=5PoB9DADFO0

Le nuove diseguaglianze culturali: che fare?

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Sofferenza. E’ quella che sento perché stiamo dimenticando una parola e il suo contrario: uguaglianza e diseguaglianza. Non possiamo più parlarne per non essere tacciati di avere lo sguardo rivolto verso il passato. Passato? Le diseguaglianze sociali nella nostra società non sono frutto dell’immaginazione, sono reali e conseguono certamente dalla crisi economica profonda, ma anche da processi di cambiamento che hanno modificato e modificheranno la nostra vita quotidiana.
Mi riferisco in particolare alla rivoluzione digitale e alla crescita e complessità delle relazioni reticolari nelle quali siamo immersi, reali e virtuali.
La digitalizzazione ha reso difficile l’accesso ai cosiddetti non nativi digitali creando il digital divide. Il problema è stato affrontato ampiamente sia dal punto di vista teorico sia dal punto di vista delle soluzioni possibili per colmare il divario tecnologico. Una fra queste prevede l’alfabetizzazione informatica e digitale di tutti coloro che non sono nativi digitali senza tenere conto delle differenze sociali e culturali tra le persone. Io credo, invece, che proprio questo ultimo aspetto è quello maggiormente rilevante perché il digital divide riproduce le diseguaglianze sociali e culturali accentuandone le conseguenze sia fra i nativi sia fra i non nativi.
Una persona può aver colmato il digital divide attraverso la socializzazione (i nativi), l’alfabetizzazione o e l’addestramento tecnico, ma non è detto che abbia gli strumenti sociali e culturali per sfruttare a pieno le potenzialità derivanti dalla digitalizzazione. In questo modo si produce individualmente e, successivamente, anche collettivamente un digital cultural divide ben più difficile da colmare con percorsi di semplice alfabetizzazione. Le diverse “riserve” di capitale culturale fra gli individui di cui parlava Bourdieu più di 40 anni fa tornano ad essere ancora più rilevanti rispetto ad allora perché non riusciamo a distinguere il dito (l’accesso e l’uso delle nuove tecnologie) dalla luna (le competenze e le conoscenze culturali possedute dagli individui).
Infatti è fondamentale sottolineare che quella parte di popolazione che accede consapevolmente c con gli strumenti culturali adeguati alle nuove tecnologie di comunicazione sta vivendo una nuova stagione di partecipazione e di produzione culturale innovativa. La sensazione delle infinite possibilità di protagonismo offerte dai nuovi media però deve fare i conti con le scarse competenze culturali e sociali diffuse in ampi strati della popolazione. Si rende indispensabile e urgente un lavoro per colmare il gap culturale, educativo e di competenze diffuso in molti settori della popolazione.
E’ un tema che dovrebbe essere prioritario per il Terzo Settore perché coinvolge ampiamente strategie, azioni e progetti dei loro ambiti di attività prevalenti (sociale, socio-sanitario, educativo, sportivo e culturale) e pone al centro una concezione della comunicazione come cambiamento culturale. Che facciamo allora? Proviamo a colmare questa frattura fra generazioni, classi e gruppi sociali con azioni educative diffuse? Come ci consiglia l’antropologo Appaduraj, proviamo a riappropriarci del nostro futuro attraverso la cultura? Non ho risposte, ma la sofferenza non può continuare ancora.

Per approfondire:
Appaduraj Arjun, Le aspirazioni nutrono la democrazia, Et e al Edizioni
Bentivegna Sara, Diseguaglianze digitali. Le nuove forme di esclusione nella società dell’informazione, Edizioni Laterza
Bourdieu Pierre, La distinzione. Critica sociale del gusto, Il Mulino, Bologna