L’emergenza coronavirus non ferma il lavoro dei cooperanti nel mondo, che si trovano a far fronte a ulteriori difficoltà nelle aree di crisi in cui si trovano ad operare. Ai nostri microfoni Silvia Stilli, Portavoce di AOI, Associazione organizzazioni italiane di cooperazione e solidarietà internazionale. (Sonoro)
Il vecchio virus
Appena due settimane fa nella Repubblica Democratica del Congo è stato dimesso l’ultimo paziente malato di Ebola, che nella grande epidemia ha causato 2200 morti: oggi anche il paese africano si trova a far fronte all’emergenza Covid-19. Anche se il livello di prevenzione negli ultimi anni è migliorato, ci si interroga con preoccupazione su quale sarà l’impatto del nuovo virus.
Effetti collaterali
La pandemia determina ripensamenti in tutti i settori della società. Negli Usa, per esempio, è avviata una riflessione sulla giustizia penale. Il servizio è di Fabio Piccolino.
L’epidemia di Covid-19 potrebbe accelerare l’abolizione della pena di morte negli Stati Uniti: è l’opinione dell’Osservatorio del Texas contro le esecuzioni capitali. Nei giorni scorsi infatti, alcune condanne sono state sospese per sessanta giorni in Tennessee e nello stesso Texas e si prevede che lo stesso succederà per i detenuti nel braccio della morte di diversi stati, compresi Ohio e Missouri. La sospensione delle esecuzioni potrebbe rappresentare un nuovo passo in avanti verso un cambio di paradigma, in un paese in cui, secondo un recente sondaggio, il 60% dei cittadini si è detto favorevole alla reclusione piuttosto che all’eliminazione dei condannati e dove in 21 Stati la pena di morte è stata definitivamente abolita.
Questione di scelte
Con una nuova legge voluta dalla prima ministra Jacinda Ardern, la Nuova Zelanda ha depenalizzato l’aborto. Fino ad oggi infatti l’interruzione di gravidanza era considerata un crimine ed era consentita solo in casi eccezionali. Soddisfazione delle organizzazioni per i diritti civili.
“Fatemi uscire”
È l’appello lanciato da Patrick Zaky, lo studente detenuto in Egitto dall’8 febbraio con l’accusa di propaganda sovversiva su Facebook. La sua custodia cautelare in carcere è già stata rinnovata per due volte: l’udienza che avrebbe dovuto decidere il suo futuro è stata rinviata lunedì scorso a causa del coronavirus.
“Fatemi uscire”: un grido di rabbia che ha oltrepassato le mura della prigione di Tora al Cairo, dove Patrik George Zaky è recluso dal 5 marzo scorso. Sin da subito sulle vicende che hanno visto protagonista il giovane egiziano si è adombrato lo spettro di un nuovo caso Regeni. Purtroppo da oltre un mese questo brutto presagio si avvicina sempre più alla realtà. Appaiono insufficienti le numerose iniziative messe in campo per chiedere l’immediato rilascio dello studente: dai cortei cittadini agli appelli raccolti e sottoscritti da molti istituti universitari. Nonostante il caso Zaky sia immediatamente balzato al centro del dibattito mediatico la situazione è ben lontana da una soluzione. In testa alle associazioni che hanno sposato la causa dell’attivista c’è Amnesty International. L’organizzazione umanitaria raccoglie sul proprio sito internet Italiano tutti gli aggiornamenti in merito alla vicenda. Inoltre è la stessa Onlus, da sempre in prima linea sul fronte della tutela dei diritti umani, che già in passato attraverso un rapporto sugli abusi di potere del governo egiziano aveva denunciato uno “Stato d’eccezione permanente” (titolo del documento reso pubblico a fine novembre). In esso Amnesty accusa la Procura suprema per la sicurezza dello stato egiziano– responsabile delle indagini sulle minacce alla sicurezza nazionale – di abusare regolarmente delle norme antiterrorismo per annullare le garanzie sul giusto processo e perseguire migliaia di persone che hanno criticato il governo in modo pacifico. Ampliando il concetto di atto terroristico anche alle proteste nonviolente, ai post sui social media e alle legittime attività politiche la Procura suprema ha il potere di reprimere qualsivoglia forma di opposizione. È già accaduto in numerosi casi per cancellare la libertà di manifestazione del pensiero ad opera di attivisti, avvocati, giornalisti, blogger, esponenti politici. Adesso tocca a Patrik Zaky, che dal 22 febbraio si trova dentro il tunnel della detenzione preventiva rinnovabile ogni quindici giorni per “supplemento d’indagine”. Un marchingegno giuridico escogitato dall’Egitto per logorare il dissenso del presunto terrorista. Settimane, mesi e persino anni, senza interrogatori, senza garanzie costituzionalmente previste. Alla fine, nel migliore dei casi arriva un tardivo proscioglimento, nel peggiore un processo. E per i reati che gli sono contestati, Zaky rischia l’ergastolo. Il suo calvario tra le strutture detentive dell’Egitto ha origine la mattina del 7 febbraio, quando lo studente del master sugli Studi di Genere e sulle Donne dell’Alma Mater di Bologna è rientrato nel suo Paese. Atterrato nella capitale egiziana Zaky è stato accolto dagli agenti dell’Agenzia di sicurezza nazionale (NSA), i quali lo hanno arrestato, tenuto bendato e ammanettato per diciassette ore durante il suo interrogatorio all’aeroporto. Sono i primi momenti di dolore per il ragazzo che nel corso delle domande poste dagli ufficiali sarebbe stato picchiato e torturato. Il giorno successivo viene trasferito in un istituto di pena nei pressi di Al-Monsoura con un carico di cinque capi di accusa: minaccia alla sicurezza nazionale, diffusione di notizie false, sovversione, incitamento a manifestazione illegale e propaganda per terrorismo. Ma dopo soli due giorni, il 10 febbraio, lo studente dell’Università bolognese è costretto nuovamente al cambio di cella. È la volta della struttura di Talkha che ospiterà Zaky in detenzione preventiva fino al 22 febbraio. Nella stessa data i giudici del tribunale di Mansoura rigettano la richiesta di scarcerazione dei legali e confermano lo stato di detenzione per ulteriori quindici giorni. Il giovane trascorrerà questo tempo prima nella prigione di Mansoura, poi nel penitenziario di Tora, dove si trova attualmente dopo che ad inizio mese il tribunale del Cairo ha rinnovato il provvedimento. La prossima udienza si sarebbe dovuta tenere il 21 marzo, ma a causa dell’emergenza Coronavirus (126 i casi ufficiali in Egitto, si pensa che siano molti di più) è stata rinviata a data da destinarsi. E con essa il futuro dello studente egiziano. Il destino di Patrick George Zaky resta sospeso tra un’emergenza sanitaria in atto da inizio anno ed una problematica umanitaria che affonda le sue radici in un terreno ben più esplorato.
di Pierluigi Lantieri
Il miglior farmaco
La proposta originale di Medici Senza Frontiere per affrontare la grande emergenza. Il servizio di Fabio Piccolino.
Per contrastare gli effetti del Covid-19, l’organizzazione umanitaria in prima linea nell’intervento sanitario chiede ai vari Paesi di rendere operativi i meccanismi di solidarietà predisposti dall’Unione Europea e inviare con urgenza le risorse necessarie nelle aree dove ce n’è più bisogno. In questo momento di crisi, spiegano, nessun paese può farcela da solo. Secondo la presidente di MSF, Claudia Lodesani, “questo virus non si ferma davanti alle frontiere e anche la solidarietà deve fare altrettanto: se non arrivano al più presto i dispositivi protettivi necessari, sempre più operatori sanitari si ammaleranno, riducendo la capacità di assistere i pazienti, creando nuovi focolai epidemici e indebolendo pericolosamente la lotta contro l’epidemia”.
Indifferenza immorale
La Siria è entrata nel decimo anno di guerra: una tragedia che ha devastato il Paese, costando la vita a 384 mila persone e che ha causato 11 milioni di profughi. Una carneficina, ricorda Unicef, che coinvolge quasi 8 milioni di bambini. Secondo il Centro Astalli, occorre chiedere alla comunità internazionale ogni sforzo per dare pace ad un popolo allo stremo.
Non dimentichiamoli
Unicef e Unhcr lanciano un appello affinché l’emergenza coronavirus non dimentichi i 70 milioni di migranti e profughi nel mondo. Il servizio di Fabio Piccolino.
Di fronte alla pandemia del Covid-19 non bisogna dimenticare migranti, rifugiati e sfollati: è l’appello lanciato nei giorni scorsi dell’Alto Commissariato dell’Onu per i rifugiati e dall’Unicef affinché le fasce più deboli della società non siano discriminate e gli ultimi non siano dimenticati. UNHCR ha ricordato che sono circa 70 milioni le persone che nel mondo sono costrette a migrare a causa di persecuzioni, conflitti, violenze e violazioni dei diritti umani. Proprio per questa ragione, la risposta al problema del coronavirus deve includere e concentrarsi sulle esigenze di ogni singolo individuo, compreso chi si trova in questa condizione.
L’altro tricolore
Dal prossimo lunedì anche la Francia chiuderà scuole e università a causa del coronavirus. È la risposta, secondo molti giudicata tardiva, del governo di Parigi, per cercare di contenere il contagio. Chiusure anche in Belgio e Portogallo, restrizioni a livello locale in Germania, mentre in Spagna sono state isolate quattro città nella provincia di Barcellona. Una situazione inedita e in continua evoluzione.
La grande ritirata
Le forze militari statunitensi hanno cominciato a lasciare l’Afghanistan dopo 19 anni di guerra: è il risultato dell’accordo dello scorso 29 febbraio tra Washington e i talebani e dei negoziati con il governo di Kabul. La risoluzione è stata approvata all’unanimità dalle Nazioni Unite e prevede lo scioglimento di tutte le organizzazioni terroristiche.




