Archivio Ivano Maiorella

Bologna chiama Napoli: popoli e piazze contro la corruzione

di Ivano Maiorella


(di I.Maiorella e G. Manzo). Popoli e piazze, uniti contro la corruzione: a Bologna don Luigi Ciotti, a Napoli papa Francesco. Piazze distanti parecchi chilometri, unite dall’emergenza e dal popolo. La mafia sta dappertutto, cambia la facciata non la sostanza: camorra, n’drangheta, mafia capitale o in salsa emiliana o lombarda. La puzza non risparmia nessuno. E nessuno si senta immune da questa “putrefazione”. Attacca così don Luigi in piazza VIII agosto a Bologna, di fronte a tante facce di ragazzi e ragazze venuti qui da tutta Italia. “Tocca a noi , alla societa’ civile fare uno scatto tutti insieme contro le mafie – prosegue –  C’e’ bisogno di un risveglio delle coscienze. Dobbiamo fare di piu’, oggi tanta gente a Bologna in piazza e tanti giovani con le facce pulite. Bene, ma dobbiamo sporcarci di piu’ le mani per scacciarle definitivamente le mafie, ve lo chiedo per piacere”. Un’implorazione quella di don Ciotti, una scintilla laica che viene da un prete. Segno dei tempi, la crisi delle coscienze passa anche da qui, l’etica laica abortisce se non diventa responsabilità pubblica, oltre che personale.

“Bene ha fatto papa Francesco a ricordare che siamo sull’orlo di una nuova guerra – dice ancora Ciotti –  Le mafie vivono in mezzo a noi e vorrei dire a chi si preoccupa di cacciare i migranti che bisognerebbe cacciare i mafiosi. Al mondo della politica diciamo di fare presto, di approvare senza toccare neppure una virgola la legge contro i delitti contro l’ambiente. La tossicita’ della terra dei fuochi continua ad uccidere cosi come l’amianto”.

Eccolo l’incontro tra la piazza di Bologna e quella di Napoli, uniti contro tutte le corruzioni: le mafie dei rifiuti tossici e quella della mondezza, quella degli appalti e quella in doppiopetto.

“La corruzione puzza, la società corrotta puzza e un cristiano che fa entrare dentro di sé la corruzione non è cristiano. La buona politica è una delle espressioni più alte della carità, a cominciare dalle realtà locali”. Questo ha gridato Bergoglio davanti al popolo di Scampia, mettendo al centro il lavoro e puntando il dito contro lo sfruttamento dei nostri giorni: “11 ore al giorno, 500 euro al mese e senza contributi: questa è schiavitù”. Non è solo un monito. Francesco l’argentino usa la sua naturale fisicità per arrivare a quella platea popolare che chiede diritti e giustizia sociale ma non ha rappresentanza. In una Napoli irreale, blindata e deserta camminano fedeli delle parrocchie, famiglie con bambini, giovani, lavoratori, laici e non credenti. Insieme al grande evento si muove la sofferenza sociale della capitale del Sud, tra le bandierine vendute a 1 euro e i foulard a 5 dagli ambulanti improvvisati. Dall’alba al tramonto, da Pompei fino al Lungomare, Bergoglio trova una città “pulita” ma consapevole della vetrina offerta alle Pontefice e alle tv. Gli stessi media che non sono potuti entrare nel carcere di Poggioreale, il penitenziario più affollato d’Italia, dove per la prima volta un Papa pranza insieme a un gruppo di detenuti. E fuori una folla festante che vuole solo un cenno o un saluto. E poi, sfumate dal “mezzo miracolo” dello scioglimento del sangue di San Gennaro, arrivano ancora parole dure, stavolta rivolte proprio al Vescovo Crescenzio Sepe e ai prelati della Diocesi napoletana: “Quanti scandali nella Chiesa e quanta mancanza di libertà per i soldi!”.
Va via quasi al tramonto Bergoglio, lasciandosi alle spalle il mare del golfo e migliaia di persone che tornano alle proprie case, ma soprattutto tornano nella quotidiana assenza di rappresentanza: Napoli e il resto del Paese cercano una speranza, una guida collettiva e un’etica. No, non è in queste istituzioni e in questa politica che si trovano risposte se prima non si combatte la corruzione e la sua puzza.

Una domenica particolare

di Ivano Maiorella


Che cosa può fare la comunicazione sociale? Questa domenica può diventare un caso di studio, ma andiamo per ordine. “Perché, perché? La domenica mi lasci sempre sola, per andare a vedere la partita.di pallone…perché?”. Erano gli anni ’60 e Rita Pavone cantava così l’Italia di allora. Le partite di serie A si giocavano tutte di domenica, allo stesso orario che ci potevi rimettere l’orologio. Oggi non è più così, segno dei tempi, forse. Quella di oggi, domenica 22 marzo, verrà ricordata come una domenica particolare, senza calcio o quasi. Il risultato del calcio spezzatino è che soltanto una partita di A si è giocata alle 15. Si può pensarla come si vuole, bella o brutta notizia. Fatto sta che questa emergenza ha spinto Rai Sport a creare qualcosa di nuovo e lo spazio pomeridiano che solitamente è occupato dal calcio superprofessionistico è stato dedicato quest’oggi ad un calcio mai visto sulle generaliste Rai, a cominciare proprio dalla domenica pomeriggio. Si dirà: la comunicazione sociale tampona la comunicazione spettacolare. La pensiamo in maniera diversa: Rai Sport ha colto l’occasione per sperimentare un genere narrativo diverso dal solito, approfittando delle contraddizioni del calcio stellare, “spezzatinato” dalle esigenze delle pay tv.

Fatto sta che il parterre de rois di una nota trasmissione di sport in tv, Stadio Sprint di domenica 22 marzo, dalle 17 alle 18 di pomeriggio su Rai 2, è stato scalettato su quattro finestre con altrettanti campi di calcio sociale: da Genova per una partita del Torneo di calcio Il Lavoratore; da Roma per la Clericus Cup; da Bologna con don Ciotti e le immagini del torneo giovanile Oltre le regole; dal campo di San Basilio, periferia est della Capitale, per una partita dei Liberi Nantes con il Nuovo Salario. La scelta della direzione di Rai Sport è stata coraggiosa e in qualche modo storica. La conduzione di Enrico Varriale è stata intelligente e nulla affatto scontata.

A Genova è andata in scena mica una partita qualsiasi: Ansaldo-Gs Sori, nell’ambito del Torneo Uisp “Il Lavoratore”, che si svolge da quarant’anni con le squadre che rappresentano le diverse aziende. Oggi c’è crisi di lavoro e cassa integrazione, ma il torneo continua.

A Roma il collegamento è stato effettuato dal campo di San Basilio, nella periferia est della. I Liberi Nantes significano integrazione contro le discriminazioni e i pregiudizi. E’ una squadra formata da esuli e richiedenti asilo. Hanno sfidato il nuovo Salario, in un incontro tra “periferie” diverse.

Sempre nella Capitale, all’ombra del Cupolone, è andata in scena la Clericus Cup, organizzata dal Csi, con squadre di seminaristi giunte da mezzo mondo e il pensiero rivolto a Papa Francesco e al suo amore per il calcio argentino, e non solo.

A Bologna c’era collegato don Luigi Ciotti, all’indomani della manifestazione nazionale per la Giornata della memoria e dell’impegno. Che c’entra il calcio? In studio c’era anche il papà di Dodò, Domenico Gabriele, bambino di 11 anni centrato da un colpo di pistola mentre giocava a calcio con i suoi amici nel 2009. Dopo tre mesi il bambino è morto, colpito casualmente da un proiettile di mafia. Sono state dedicate a lui le immagini del torneo “Oltre le regole”, che coinvolge duemila ragazzi e ragazze bolognesi tra i 6 e i 9 anni. Un campionato senza classifica e senza cartellini rossi e gialli. I cartellini sono “azzurri”, destinati a chi si distingue di più nel fair play.

Durante il collegamento si è parlato anche della partita degli azzurri della Nazionale a Rizziconi, una manifestazione di popolo realizzata grazie a Libera, all’Us Acli e all’allora ct dell’Italia, Cesare Prandelli (ci auguriamo che chi lo ha rimpiazzato ne segua l’esempio). Era il 13 novembre 2011, si giocava sul campo del terreno di Rizziconi, sequestrato alla ‘Ndrangheta ed è stata festa grande. Proprio come in questi giorni a Bologna, con Libera che ha festeggiato i venti anni di vita: “La verità illumina la giustizia”. Anche il calcio sociale può illuminare l’altro lato del calcio, più opaco, buio, ambiguo. Se è messo in condizioni di farlo. Questa volta la Rai lo ha fatto: c’è da augurarsi che l’esempio venga seguito anche in futuro, c’è da augurarsi che il racconto dell’Italia vera passi anche attraverso lo sport sociale e non soltanto quello superprofessionistico. Lo sport è un linguaggio popolare per eccellenza: la verità passa anche da qui.

I diritti di sempre: uccidere non è giustiziare

di Ivano Maiorella


Alcune notizie passano velocemente, altre rimangono e ci fanno riflettere sul senso della vita: punizione e giustizia. “La strada per la libertà” è un film di Ava DuVernay dello scorso anno e rievoca i fatti di Selma, Alabama, dove cinquant’anni fa la polizia represse nel sangue la manifestazione di 500 attivisti per il voto agli afroamericani.

Dieci giorni fa, mentre il presidente Obama marciava con la sua famiglia per ricordare questa pagina buia, diceva: “Selma non riguarda il passato. Selma è ora”. Parlava di giustizia e si riferiva ai comportamenti della polizia di Ferguson, Missouri, di alcuni mesi prima.

Nel dicembre 2014 lo slogan “Black lives matter“, cioè “La vita dei neri conta”, si era diffuso nelle proteste seguite all’uccisione degli afroamericani Michael Brown ed Eric Garner, uccisi da agenti bianchi rispettivamente a Ferguson vicino St. Louis, in Missouri, e a New York.

Cinquant’anni dopo i fatti di Selma, 7 marzo 2015: il presidente Obama parlava e marciava. In quei giorni venivano uccise altre tre persone di colore negli Usa. A Madison, nel Wisconsin, un ragazzo disarmato veniva freddato dalla polizia provocando la protesta degli abitanti del quartiere. Ad Atlanta, in Georgia, un poliziotto uccideva con due colpi di pistola a bruciapelo un ragazzo afroamericano che correva nudo per la strada. Il poliziotto ha visto il ragazzo correre verso di lui disarmato, ha aperto il fuoco e l’ha ucciso. In Colorado veniva ucciso un 37enne di colore, anche lui secondo le informazioni che sono trapelate era disarmato. L’uomo sarebbe stato ricercato per sequestro di persona e di rapina. L’agente nel tentativo di arrestarlo ha fatto partire alcuni colpi di pistola che lo hanno ucciso.

Ci saranno dei processi per queste cose, in quella che è la patria dei processi. Ma il punto è un altro: c’è un termine, giustiziare, che molto spesso viene usato a sproposito. Per indicare queste uccisioni e altre che avvengono nel mondo. Giustiziare deriva dal latino iustum, ‘secondo il diritto’. Significa questo: sottoporre a esecuzione capitale, in seguito a processo e regolare condanna a morte. Ovvero: giustiziare non è sinonimo di uccidere, mettere a morte, assassinare.

In quella che è anche la patria della detenzione legittima di armi da fuoco, il termine giustiziare viene spesso confuso con quello di “giustiziere”. E il diritto di punire viene confuso con un altro termine: diritto.

In Italia, in quella che è la patria del milanese Cesare Beccaria (1738-1794) questa confusione è un errore grave. Se è vero che l’illuminismo è la base della modernità.

Birdman o l’imprevedibile virtù dell’ignoranza

di Ivano Maiorella


Cinema e sociale si leggono a vicenda. Clara Capponi e Francesca Spano’ firmano due brevi schede: perche’ si’ e perche’ no. Il pluripremiato film di Iñárritu fa discutere, in molti si sentono toccati, non semplicemente sfiorati. Questo è un merito, ma non basta. Ne abbiamo parlato anche nella redazione del Giornale Radio Sociale, nella riunione di martedi scorso.

Perche’ no, di Clara Capponi

Dopo un po’ che te ne stai lì, avvolto ben bene nell’atmosfera sospesa del cinema, capisci subito di trovarti di fronte ad un’opera da maestro: ogni scena, inquadratura, ogni gesto degli attori è sapientemente bilanciato e dosato all’interno di un’architettura perfetta; hai la netta sensazione che il regista abbia immaginato nella sua testa ogni istante di girato.

È questo l’impatto con Birdman, film virtuoso e tecnicamente ineccepibile.

Come in un videogioco, all’inizio sei lì dentro, a cavallo della macchina da presa, che come un drone plana sulla scena e addosso agli attori come se tutto fosse un’unica scena fluida. Ma a un certo punto non basta più; il fatto è che dopo un po’ tutto diventa troppo, prevale lo straniamento fra la ‘forma’ mirabolante e la sostanza debole di un racconto che emoziona poco. Le vicende del protagonista offrono spunti ampi, ampissimi: il rapporto fra finzione e realtà, fra cultura e mainstream, la paura di una società che cannibalizza le emozioni con social media.

La storia intreccia sapientemente diversi livelli narrativi ma non li risolve; Birdman è un film ruffiano, dove il compiacimento della tecnica penalizza una storia che offre scarsi punti di vista e soluzioni scontate, soprattutto nel finale.

Perche’ si‘, di Francesca Spano’

Birdman divide il pubblico, c’è chi dice “si” e chi dice “no”. Io sono assolutamente per il “si” e i quattro Oscar vinti sono senza dubbio meritati.

Un film tecnicamente sublime, un (apparente) unico piano sequenza ,interrotto solo due volte, un montaggio invisibile, impercettibile. Alejandro González Iñàrritu  ti guida tra i corridoi labirintici del retropalco del teatro di Broadway, dove si svolge tutto, metafora della battaglia interiore che i protagonsiti vivono tra l’immagine che hanno di sé e il chi sono veramente.

Mantiene costantemente un perfetto equilibrio tra l’estrema cura dell’immagine e la storia, per niente vuota, una narrazione che ti rende partecipe, ti emoziona, anche nel finale. Assolutamente non didascalico, personalmente prediligo una narrazione poetica, poco espositiva e forse sta proprio qui il perché dico “si” alle quattro statuette.

Un viaggio tra metacinema e metateatro per raccontare le angosce di un vecchio attore che tramite il teatro tenta di uscire dalla propria esistenza, utlizza l’arte per rinascere. Una commedia che parla di Ego.

La pellicola ti inchioda alla poltrona dall’inizio alla fine, ti ritrovi col naso all’insù e a bocca aperta, come quando da bambino rimanevi affascinato da qualcosa.

Un ex supereroe, col costume da uccello, che ormai nessuno più si fila, una protesta verso Hollywood e al mainstream “Papà non sei nessuno, perché non sei su facebook” gli urla in faccia la figlia, anche lei alle prese con la sua batttaglia esistenziale, tra un padre assente che ora cerca di prendersi cura di lei e il tentativo di rimanere “pulita” da droga e alcool che l’hanno portata a entrare e a uscire dai centri di disintossicazione.

Ciliegina sulla torta, una musica diegetica che ti guida, danza insieme alla macchina da presa e lo senti nel suo crescere e decrescere.

Pura genialità e in quanto tale non può essere spiegata.

 

 

Italia, Paese diseguale. Viviamo tanto e male

di Ivano Maiorella


Secondo l’Istat gli Italiani sono un popolo di disoccupati, con bassa scolarizzazione, giovani cervelli in fuga, con l’economia sgonfia, spesa sanitaria pubblica agli ultimi posti in Europa e la libertà di stampa è al 73° posto. Eppure…

Sono due milioni e mezzo i giovani tra 15 e 29 anni che non studiano e non lavoro, i cosiddetti Neet. Si tratta del 26% degli under 30, più di 1 su 4 secondo i dati 2013. In Ue peggio fa solo la Grecia (28,9%). C’è per caso da essere soddisfatti? Eppure il recente rapporto Istat “Noi Italia. 100 statistiche per capire il Paese in cui viviamo”, ci dice che in fondo non siamo così male. L’Italia si conferma una ‘culla’ di longevità, ad esempio. Secondo il rapporto, nel 2013 la vita media delle donne è di 84,6 anni, quella degli uomini di 79,8 anni, tra le più lunghe dell’Unione europea. I fumatori e i consumatori di alcol sono in calo rispetto agli anni precedenti.

Secondo i numeri presentati la spesa sanitaria pubblica italiana nel 2012 era 2481 dollari a persona, poco più di metà di quella olandese, al primo posto nella classifica, ma inferiore a quella di tutti gli altri Paesi tranne Spagna, Portogallo e Grecia. Anche nella spesa privata l’Italia è agli ultimi posti con il 20% di quella totale. Posti letti: 3,4 su ogni mille abitanti, un dato superiore solo a Spagna, Irlanda, Regno Unito e Svezia, mentre al primo posto c’è la Germania che ne mette a disposizione 8,2. A fronte di investimenti inferiori a quelli dei principali ‘competitor’ europei il Paese vanta cifre di mortalità inferiori in diversi ambiti.

In Italia – si riporta nel documento – il 10,3% della popolazione adulta (18 anni e più) è obesa, percentuale che appare la più bassa in Europa. Inoltre, secondo l’Istat i dati di lungo periodo evidenziano un aumento della propensione alla pratica sportiva (dal 26,8% del 1997 al 31,6% del 2014) Come si spiega questo su-e-giù del nostro Paese?

Letture, scolarizzazione, spesa per l’istruzione, diseguaglianze di reddito, lotta all’evasione fiscale: italiani dietro alla lavagna.

Nel 2014, il 41,4% degli italiani ha letto almeno un libro nel tempo libero, con una prevalenza di lettrici (48%) sui lettori (34,5%). Sono sempre di più le persone che utilizzano la rete per la lettura di giornali, news o riviste: dall’11% del 2005 al 31% del 2014. Rispetto a questa forma di utilizzo della rete, l’Italia si posiziona al di sotto della media europea.

In Italia, l’incidenza della spesa in istruzione e formazione sul Pil e’ al 4,2% nel 2012, valore vicino a quelli di Germania e Spagna, ma inferiore a quello dell’Ue28 (5,3%). Anche se il fenomeno dell’abbandono scolastico e’ in progressivo calo, l’Italia rimane ancora lontana dagli obiettivi europei (10%).

Sono circa due milioni e mezzo (26% del totale) i giovani italiani tra 15 e 29 anni che nel 2013 non sono inseriti in un percorso scolastico e/o formativo e neppure impegnati in un’attività lavorativa. In Europa, solo la Grecia presenta un’incidenza maggiore (28,9%).

In Italia, l’incidenza della spesa in istruzione e formazione sul Pil è al 4,2% nel 2012, valore vicino a quelli di Germania e Spagna ma inferiore a quello dell’Ue28 (5,3%).

La spesa sanitaria pubblica italiana risulta inferiore a quella dei principali paesi europei: poco meno di 2.500 dollari pro capite nel 2012 (in parità di potere d’acquisto), a fronte degli oltre 3.000 spesi in Francia e Germania. Nel 2012, le famiglie hanno contribuito con proprie risorse alla spesa sanitaria complessiva per una quota pari al 20,8%, in calo di oltre due punti percentuali rispetto al 2001.

Nel 2013 il Pil pro capite italiano, misurato in parità di potere d’acquisto, risulta inferiore del 2,2% a quello medio dell’Ue28, è più contenuto di quelli di Germania e Francia e appena superiore al prodotto interno lordo spagnolo. L’incidenza degli investimenti è poco meno del 18% e risulta inferiore alla media europea (19,3%); Francia, Germania e Spagna presentano incidenze superiori (rispettivamente 22,1, 19,7 e 18,5%).

Nel 2013 risultano occupate quasi sei persone su dieci in età 20-64 anni, con un forte squilibrio di genere a sfavore delle donne e un marcato divario territoriale tra il Centro-Nord e il Mezzogiorno. Nella graduatoria europea, solamente Grecia, Croazia e Spagna presentano tassi di occupazione inferiori al nostro Paese. L’Italia ha un alto tasso di mancata partecipazione al mercato del lavoro, al 21,7% nel 2013 (26,1% per le donne). Si tratta di un indicatore particolarmente importante per quei paesi, come l’Italia, dove c’è una quota elevata di persone che non cercano lavorano attivamente e quindi non rientrano nel conteggio della disoccupazione. Nella media Ue28 il tasso si attesta al 14,1%; solo Spagna, Grecia e Croazia presentano valori più elevati di quello italiano. Il tasso di disoccupazione raggiunge il 12,2% nel 2013, 1,5 punti percentuali in più rispetto all’anno precedente.

Nel 2012 circa sei famiglie residenti su dieci (62%) hanno conseguito un reddito netto inferiore all’importo medio annuo di 29.426 euro, pari a circa 2.452 euro al mese. C’è una forte diseguaglianza di concentrazione di reddito, che risulta più alta soltanto in Bulgaria, Lettonia e Lituania e più bassa in Slovacchia, Slovenia, Repubblica Ceca e Svezia.

In Italia la spesa per la protezione sociale supera il 30% del Pil nel 2013; il suo ammontare per abitante sfiora gli 8 mila euro l’anno. All’interno della Ue28, l’Italia presenta valori appena superiori alla media, sia in termini pro capite sia di quota sul Pil.
Circa l’80 per cento dei redditi lordi individuali degli italiani non supera i 30mila euro annui. Solo il 2,4 per cento della popolazione ha redditi oltre i 70mila euro. I dati sono coerenti con quelli pubblicati dal ministero dell’Economia e delle Finanze sulle dichiarazioni del 2012, da cui sappiamo anche che il 2,4 per cento dei più ricchi versa il 26,4 per cento dell’imposta netta totale. Questi dati vengono spesso richiamati per ricordare la disuguaglianza (crescente) nel nostro paese e, più di recente, per evidenziare come la maggiore mobilità internazionale (e le maggiori possibilità di elusione ed evasione fiscale?) di coloro che hanno redditi elevati mettano a repentaglio una parte elevata delle entrate fiscali. Quanto più il reddito è concentrato (come in Italia), quanto più cresce il rischio di evasione fiscale.

 

Terra sempre più calda

di Ivano Maiorella


Che cosa è del Trattato di Kyoto, a dieci anni dall’entrata in vigore? La Terra diventa più calda ogni ora di più. Il Mediterraneo bolle, così come il Mar Nero ucraino e il Mar Baltico della vichinga Copenaghen. L’Europa notifica una sua certa inutilità. C’è un nesso che lega il riscaldamento da anidride carbonica e quello da polvere da sparo.
In questa situazione di riscaldamento bellico, quanti ricorderanno il decennale del Protocollo di Kyoto? Quel trattato internazionale, storico per importanza, entrò in vigore il 16 febbraio 2005. Vi aderirono 141 Paesi, esclusi gli Stati Uniti, responsabili del 36,2% del totale delle emissioni di biossido di carbonio (annuncio marzo 2001).  Il trattato prevede l’obbligo di ridurre le emissioni di elementi inquinanti, dal biossido di carbonio al metano all’ ossido di azoto. La durata del Trattato inizialmente doveva protrarsi sino al 2012, poi è stata prolungata al 2020.

Se non ci fosse stato questo freno, le emissioni di gas serra si sarebbero moltiplicate in maniera indiscriminata. Come è avvenuto a partire dal XIX secolo, quello della rivoluzione industriale. Da allora la concentrazione di anidride carbonica è aumentata del 40%; cause primarie, le emissioni legate all’uso dei combustibili fossili e quelle dovute al cambio di uso del suolo, deforestazione e cementificazione.
Crescita economica e sviluppo industriale che ha riguardato una parte esigua del pianeta, quella cosiddetta occidentale ad economia spiccatamente capitalistica. Tutto il resto ha subìto le conseguenze di questo degrado planetario. A questa inesorabile degradazione dell’ambiente si accompagna l’aumento delle diseguaglianze economiche e sociali. Così, i dati pubblicati da Oxfam nel gennaio 2015 affermano che, nel 2014, “l’1% più ricco della popolazione mondiale possedeva il 48% della ricchezza globale, lasciando appena il 52% da spartire tra il restante 99% di individui sul pianeta”.
“Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile” così Naomi Klein che la scorsa settimana ha chiuso a Roma il tour italiano di presentazione ed ha incontrato i parlamentari italiani. Papa Francesco non è da meno:  “No, a un’economia dell’esclusione e della iniquità. Bisogna agire anzitutto sulle cause strutturali della iniquità”. Il pianeta Terra è sempre più caldo, c’è bisogno di fare. Il perchè è sotto gli occhi di tutti.

Perchè festeggiamo il loro ritorno a casa

di Ivano Maiorella


Greta Ramelli e Vanessa Marzullo hanno diritto ad un po’ di normalità intorno a loro. Hanno vissuto un’esperienza dura, giovanissime donne con i loro ideali,  improvvisamente calate in un pozzo nero di ferocia e violenza, in bilico tra la vita e la morte.

La loro vita, oggi, vale più di qualsiasi altro discorso. Al netto delle congetture, delle offese e delle violenze verbali che stanno subendo. Il loro ritorno a casa, sane e salve, non deve passare in secondo piano rispetto a nessun’altra considerazione. Se così non fosse, significherebbe resa della dignità umana di fronte al cinismo e al pregiudizio. Pregiudizio perché donne e perché giovani.
Questa storia, non ci sono dubbi, ha ancora molti aspetti da svelare e molti interrogativi a cui occorre dare risposte. Lo possiamo e dobbiamo fare perché Greta e Vanessa oggi sono a casa.

Le due volontarie italiane, libere dopo sei mesi di prigionia in Siria,  tornano in Italia non accompagnate da sollievo e soddisfazione unanime, come era prevedibile aspettarsi, ma da una spirale di polemiche, insinuazioni ed insulti volgari. Cos’è successo davvero e cosa sono andate a fare in Siria? Chi ha autorizzato il loro viaggio? Come lo stato deve garantire per la sicurezza dei cooperanti e degli italiani all’estero?  Siano essi tecnici al lavoro nelle imprese multinazionali o religiosi o religiose impegnate nelle missioni. Allo stesso tempo c’è da innalzare responsabilmente il livello di attenzione individuale, per motivi umanitari, ideali o anche semplicemente turistici. La guerra sa essere anche un business in un pianeta che sta bruciando di violenza. E diventare bersagli o ostaggi nelle mani dei pirati locali è questione di niente.

La cooperazione italiana vigila con responsabilità e senso del limite sulla possibilità di intervenire in alcune zone del pianeta. Va ascoltata e sostenuta con risorse adeguate, nella preparazione e nella formazione degli operatori. Non è un caso se i governi, così come quello italiano, ripongono proprio nella cooperazione i buoni propositi per stemperare i conflitti ed essere vicino a chi soffre, per portare sollievo e umanità. Il governo metta le risorse necessarie e la cooperazione italiana saprà mettere in campo la sua credibilità. E’ compito della politica adottare le necessarie strategie diplomatiche per intervenire nelle aree più calde. Tutelando la vita e la dignità di tutti, evitando le illazioni e le speculazioni.

Festeggiando se due ragazze di vent’anni tornano a casa sane e salve, dopo una brutta storia.

 

(ha collaborato Fabio Piccolino, redazione Grs)

A Parigi, anche in mio nome

di Ivano Maiorella


Non esiste un’identità europea e da ciò derivano molte attuali difficoltà, economiche e politiche. Di fronte alla strage di Charlie Hebdo e alle 48 ore che hanno sconvolto Parigi e il mondo, mi sento francese. Affermandolo mi riferisco ad un’identità precisa, che vorrei fosse italiana ed europea: il rapporto illuminista tra ragione e fede, fatto di responsabilità e libertà.

Penso che i terroristi jihadisti abbiano colpito innanzitutto questo cuore culturale dell’identità francese. La libertà di stampa e di espressione, al di là del merito delle vignette, è uno dei basamenti della cultura nata dalla Rivoluzione francese. Per questo a Parigi, alla manifestazione di domenica e nei prossimi giorni, con il silenzio delle matite e della carta contro il fragore dei proiettili. Senza se, senza ma.

L’Europa illude e delude? E’ così. Allora perchè non ripartire da alcuni elementi identitari che possono cominciare a costruirne l’ossatura?  Libertà e diritti. Insieme ad uguaglianza e giustizia sociale, pace e cooperazione internazionale, memoria e storia.

Sono valori che incontriamo sul terreno sociale, che vanno riannodati e spiegati. Forse anche per questo la fiaccolata di piazza Farnese a Roma, di fronte all’ambasciata di Francia, ci ha visto in prima fila. Organizzazioni sociali e giornalisti, cittadini e intere redazioni. C’eravamo anche noi, la redazione del Giornale Radio Sociale, je suis Charlie. Stéphane Charbonnier, noto come Charb, direttore del settimanale parigino, faceva il suo lavoro di giornalista e aveva scelto la satira come strumento per conoscere i fatti, ricostruire una verità e farla arrivare alle persone. In maniera chiera e diretta: Chiarlie Hebdo non è un giornale generalista. Chi sceglie di comprarlo in edicola conosce e chiede quel linguaggio. Non è un giornale contro l’Islam, né contro le religioni. E’ un giornale e basta.

La sua compagna ha parlato del progetto di Charb, un libro sull’islamofobia, che “aveva preparato per dire che si può essere laici e tolleranti. E il libro uscirà quando lui non ci sarà più”. E pensare chi in queste ore, nel nostro paese e non solo, ci sono alcuni che ne stanno approfittando per soffiare sul fuoco del pregiudizio e dell’odio razziale. E alzano la voce in maniera sguaiata e ipocrita per ripeterci che la nostra identità di europei dovrebbe essere quella della “guerra santa” all’Islam, della pulizia etnica contro il diverso.

Non in mio nome. #notinmyname, come stanno twittando i giovani musulmani di tutto il mondo contro il terrorismo isamico. E come tre giorni fa ha scritto Igiaba Scego sul sito della rivista Internazionale.

 

 

 

Beautiful Boy, buon cammino

di Ivano Maiorella


Il titolo di questo editoriale ve lo spieghiamo tra un po’. Andiamo per ordine: bilanci e prospettive, come si conviene ad un editoriale di fine/inizio d’anno. Partiamo dalla legge di stabilità, appena pubblicata in GU: quali saranno i riflessi sul sociale? C’è l’incognita dei tagli alla sanità, che passeranno soprattutto attraverso quelli alle Regioni. La spesa sociale cresce del 67%, scrive Vita.it. : “si è passati dai 1.860 milioni del Governo Letta ai 2.760 milioni del Governo Renzi”. Anche se il problema della copertura economica dei provvedimenti, tiene in allarme permanente molte organizzazioni sociali. Da quelle di servizio civile a quelle per i diritti delle persone disabili. Senza contare che la protesta per la penalizzazione fiscale delle fondazioni bancarie, che ha attraversato trasversalmente tutto il mondo del terzo settore, è rimasta inascoltata.

C’è poi l’incognita del combinato disposto tra Legge di stabilità e cosiddetto Jobs Act. Ne sapremo qualcosa di più nella prima quindicina di gennaio quando questi due provvedimenti si incroceranno con una terza variabile: i posizionamenti politici in vista dell’elezione del prossimo Presidente della Repubblica.

Come verrà ricordato dal terzo settore l’anno che se ne sta andando? Doveva diventare il primo, secondo le intenzioni di febbraio da parte del governo. Tanto da meritare i titoli in prima pagina, cosa mai successa prima. “Distinguere il grano dal loglio”, c’è scritto nella bozza di documento sulla riforma del terzo settore predisposto dal governo a maggio.

Il documento ha avuto il merito di aprire un dibattito ampio, dentro e fuori il terzo settore. Il Forum del terzo settore, la più grande rete interassociativa italiana con oltre cento organizzazioni sociali, ha contribuito alla discussione con un documento ricco di spunti e suggerimenti.

Tra le molte idee avanzate dalle organizzazioni sociali che hanno partecipato alla consultazione c’è un richiamo convergente: quello alla necessità di valorizzare partecipazione e protagonismo delle persone, che questo mondo rappresenta.  Segnaliamo, in proposito, l’interessante intervento di Andrea Volterrani, Università di Roma Tor Vergata, nell’ambito del convegno del 16 aprile a Roma per presentare i dati del “censimento” Istat. Un lavoro lungo dieci anni che per la prima volta fotografa una galassia di circa 300.000 diversi soggetti. C’è un nesso tra partecipazione e comunicazione, tra democrazia e utilizzo della rete, tra “prossimità territoriale” ed educazione alla cittadinanza. Legare tra di loro questi valori aiuta a rispondere alla domenanda che si pone alla fine Volterrani: “Abbiamo  trovato  il  valore  sociale  aggiunto  e  il  gusto  del  volontariato?” E se questo gusto fosse proprio quello della  partecipazione?

Di fronte al rischio che la riforma del terzo settore si riduca, nei fatti, a provvedimenti per “aziendalizzare” in forma sociale tutto questo mondo, si sono levate varie voci. Anche quella di Pietro Barbieri, portavoce del Forum del Terzo settore,  il 10 novembre durante un’audizione in Commissione affari sociali: “Abbiamo fatto presente la necessità che la Riforma non sia appiattita sul tema dell’Impresa Sociale, pur importante, e che al Volontariato e alla Promozione Sociale (che rappresentano circa il 90% del Terzo Settore Italiano) sia riservata pari attenzione”, Concetti che Pietro Barbieri ha ribadito in un’intervista al Giornale Radio Sociale dell’11 novembre .

L’anno si è chiuso con l’inchiesta giudiziaria “Mafia Capitale”, i cui risvolti non sono ancora immaginabili. Di certo è venuta allo scoperto una cupola di interessi che legava criminalità organizzata, corruzione di Palazzo (funzionari, ex funzionari, politici, partiti…), esponenti di primo piano della cooperazione sociale romana e non. La presa di distanze da parte dell’intero mondo della cooperazione sociale è stata netta e radicale.

Se il terzo settore ha subito dalla vicenda un complessivo danno d’immagine è pur vero che qualcosa deve essere scampanellato anche nelle orecchie del legislatore. E suona più o meno così: se l’economicismo (sociale) diventerà il muscolo principale del terzo settore, che differenza c’è o ci sarà col resto della società? Ovvero con il primo e secondo settore? Se partecipazione e democrazia vengono smontate, tanto vale cancellarle del tutto, in quanto arnesi costosi e obsoleti. Mentre, proprio nella riforma del terzo settore,  sarebbe il caso di rilanciarne il valore, insieme ad un sistema che imponga trasparenza, controlli e verifiche pubbliche. E lasciare che il terzo settore, rimanga “terzo”.

Chiudiamo tornando al titolo di questo editoriale: “Beautiful boy”. E’ una dedica al piccolo Elio, nato nella notte di Natale, figlio del nostro collega Fabio Piccolino e della sua compagna Priscilla. E’ una dedica musicale, come è ovvio, perché Fabio (che a questo punto della lettura avrà scoperto tutto da un pezzo) è uno del ramo. Si tratta della canzone che John Lennon scrisse nel 1980 per il figlio Sean: “Prima di attraversare la strada/ prendi la mia mano/ la vita è ciò che ti succede/ mentre sei impegnato a fare altri progetti”. Auguri a mamma, a papà e al piccolo Elio.

Auguri dalla Redazione del Giornale Radio Sociale a tutti i nostri ascoltatori e lettori. Auguri che vi succeda qualcosa di buono nell’anno che verrà, magari quando meno ve l’aspettate, mentre siete impegnati a “fare altri progetti”.

Torneremo insieme il 7 gennaio 2015 con la consueta programmazione. Continuate a seguirci sul sito internet e sulla pagina Facebook.

Mamma Roma, periferia di periferie

di Ivano Maiorella


Né grandiosa in bellezza, né infima in bruttezza. La Roma di mafia capitale torna ad essere metafore di tutte le periferie, miserabile come gli stradoni dei sobborghi sorti disordinatamente dagli anni ’60, quelli del sacco, quelli denunciati dal sociologo Franco Ferrarotti. Roma da capitale – che non è mai stata – a periferia: le proteste disordinate di Tor Sapienza, i rom, l’ex sindaco Alemanno che marcia con un manipolo di italiani contro immigrati e rom. Ma non era stato lui stesso, durante il suo mandato, a stiparli in quel modo?

Il guercio, la banda della Magliana, l’orrore della suburra, la violenza cieca, gli interessi della criminalità organizzata: Roma non ha mai smesso di essere periferia d’Italia. La politica di sinistra si indigna e risfodera, ora, l’orgoglio di una “diversità” che avrebbe dovuto essere regola, dovere. E’ vero: non tutti sono uguali, occorre prendere le distanze dalle tribù scatenate. Ci mancherebbe altro. Di questo passo arriverà a riflettere sul fatto che non c’è niente di moderno nel metodo delle cene elettorali e di partiti ultraleggeri e permeabili ad ogni interesse, elettorale o criminale.

Che c’entra tutto ciò col sociale del quale ci occupiamo? C’entra almeno tre volte.

La prima chiama in causa il metodo della partecipazione, della presenza sul territorio e del controllo collettivo. Le organizzazioni sociali, da quelle storiche alle più piccole e locali, hanno fatto e fanno di quel metodo un fondamento del loro essere. Non si tratta di un astratto ornamento ma di democrazia partecipata. Non di un vecchio arnese, costoso e lento, ma di un modernissimo antidoto all’autoritarismo.

La seconda chiama in causa il “racconto della realtà”, che non dobbiamo mai stancarci di fare. La storia di chi è nato nel fango va fatta in prima persona. Dare voce alle periferie sociali attraverso chi le abita.

La terza ragione per cui il sociale deve tenere ben alta la testa e ragionare su quanto sta avvenendo è che detesta “gli uomini vuoti”, l’indifferenza razzista, la perdita graduale della propria identità. “Mamma Roma”, nel film di Pasolini, c è disposta a tutto pur di vedere il proprio figlio sistemato, per “fare invidia a tutti i pezzenti”. Storia di periferia “accattona” e di rancori bastardi, che non ti fanno vedere niente altro se non te stesso.

Siamo in tempi di inconsistenza politica e il dilagante individualismo rischia di aprire la strada a conformismi autoritari. E’ vero, basta parlare con le persone in strada. Con i ricchi e con i poveracci. Noi conosciamo un antidoto, uno solo: partecipazione e associazionismo democratico. La nuova politica batta un colpo.