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In mountain bike contro il cancro: 460 km percorsi da tre donne dalla Sardegna al Marocco

di Redazione GRS


In mountain bike contro il cancro

Dalla Sardegna al Marocco, per dimostrare a se stesse e al mondo che l’impossibile non esiste. Tre donne, insieme, hanno percorso 460 km su due ruote, seguite da medici, nutrizionisti e tecnici specializzati.

La “Marocco Expedition Women Challenge” è un messaggio di speranza per circa 377mila persone che ogni anno, in Italia, vengono iscritte alle liste delle nuove diagnosi di tumore.
Tre donne, insieme, sono capaci di tutto. Se poi hanno affrontato a muso duro un tumore, hanno una forza che è inimmaginabile persino per loro. La sfida denominata “Marocco Expedition Women Challenge” non era roba da supereroi, ma neppure per gente che si piange addosso: si trattava di un raid in mountain bike, in sentieri impervi tra i deserti e le montagne del Marocco, dalla catena montuosa dell’Alto Atlante al massiccio vulcanico del Jebel Saghro, sino alla famosa Draa Valley. In tutto, 460 km. Per dimostrare, a se stesse prima che al mondo, che spesso l’impossibile è possibile.

Cuore, tenacia e spirito di rivalsa. Così tre donne sarde hanno combattuto e vinto una delle sfide più ardue che abbiano mai affrontato, a parte la malattia. All’inizio erano in quattro: Daniela Tocco, Donatella Mereu e Paola Zonza sono riuscite a partire ma, negli ultimi giorni della preparazione, Daniela Valdes ha dovuto rinunciare per motivi personali. Hanno accolto la proposta di Acentro per il sociale e, insieme, hanno deciso di iniziare un lungo, faticoso percorso fatto di visite mediche, allenamenti, diete bilanciate. Un adeguato addestramento tecnico, unito a una meticolosa preparazione atletica, ha permesso loro di ottenere il via libera dello staff medico-sanitario guidato dal dottor Marco Scorcu, responsabile di Medicina dello sport della Assl di Cagliari e responsabile sanitario del Cagliari Calcio. In Marocco invece era presente la dottoressa Rita Nonnis, chirurga senologa dell’Aou di Sassari, mentre la dottoressa Claudia Collu era la biologa-nutrizionista della spedizione alla quale hanno preso parte il coach Antonio Marino, l’esploratore estremo Maurizio Doro e Michele Marongiu: quest’ultimo, appassionato di ultracycling e amante dei viaggi-avventura in bicicletta, è stato l’ideatore dell’iniziativa. Si è ispirato alla storia di Tiziana Garau, un’altra malata di cancro, che rappresenta idealmente tutte le 182mila donne italiane a cui ogni anno viene diagnosticato un tumore (le nuove diagnosi di tumore tra gli uomini sono invece 195mila).

Paola Zonza ha 43 anni ed è sassarese. Alle spalle dieci anni di basket, prima di approdare in serie con la maglia della Torres femminile: quella, per intenderci, che vinceva gli scudetti a suon di gol realizzati da top player come Parejo, Carta, Guarino e Placchi. «Paoletta, come la chiamiamo noi, incarnava lo spirito delle sarde in gruppo con molti innesti della penisola. Era un elemento fondamentale per lo spogliatoio. Non mi meraviglia che sia riuscita in questa impresa», commenta l’ex presidente torresino Leonardo Marras.

«Quel mio trascorso agonistico mi è servito tantissimo», ammette Paola. «La Marocco Expedition è stata un’esperienza molto impegnativa, ma sono felice di avervi partecipato perché, durante la malattia, avevo dovuto abbandonare l’attività sportiva. Grazie a questa iniziativa mi sono ritrovata in un’altra squadra. Ero titubante, mi chiedevo come potessi interagire con loro: in fondo, io avevo fatto una certa esperienza negli sport di squadra, loro no. Invece mi ha stupito positivamente il loro straordinario cameratismo».

Donatella Mereu è originaria di Portoscuso ma cagliaritana d’adozione. «Non so esattamente che cosa temessi maggiormente, quando sono partita per questa straordinaria avventura», commenta. «Sicuramente lo sforzo fisico, anche se ho sempre amato lo sport all’aria aperta. La bici è arrivata in un secondo momento. Ma forse era prevalente la parte emotiva perché, a differenza delle mie compagne d’avventura, io ancora combatto contro un mieloma mentre loro, fortunatamente, sono state dichiarate clinicamente guarite. Da questa esperienza ne sono uscita più forte».

«Ha ragione Paola, tra di noi c’era un feeling speciale», è il parere di Daniela Tocco. «Ci bastava guardarci negli occhi per capirci al volo e trovare una soluzione a qualunque problema. È stata un’esperienza bellissima, il solo pensare a loro mi fa tornare il sorriso. Certo, la malattia mi ha messo a dura prova e ha lasciato il segno, però mi ha permesso di apprendere delle cose nuove. Avevo una gran voglia di vivere, ora ancora di più: la Marocco Expedition mi ha fatto crescere nell’ascolto e nell’aiuto degli altri».

La presentazione del docufilm realizzato dal videomaker Pierandrea Maxia, avvenuta martedì sera in un albergo del capoluogo sardo, ha strappato più di una lacrima ai numerosi presenti. Il giornalista cagliaritano Giorgio Porrà, uno degli uomini di punta di Sky Sport, ha prestato il suo volto per fare da filo conduttore della trama: la sua presenza è risultata particolarmente significativa e in linea con il progetto, in quanto egli stesso ha dovuto combattere contro un tumore molto aggressivo.

«Quando ti diagnosticano un tumore, dopo la sberla iniziale, pensi a reagire. Ti poni degli obiettivi, anche se non sai se riuscirai a guarire», spiega Paola. Dalla Sardegna al Marocco, per dimostrare a se stesse e al mondo che l’impossibile non esiste. Una straordinaria avventura sulle due ruote, seguite da medici, nutrizionisti e tecnici specializzati. La “Marocco Expedition Women Challenge” è un messaggio di speranza per circa 377mila persone che ogni anno, in Italia, vengono iscritte alle liste delle nuove diagnosi di tumore
Tre donne, insieme, sono capaci di tutto. Se poi hanno affrontato a muso duro un tumore, hanno una forza che è inimmaginabile persino per loro. La sfida denominata “Marocco Expedition Women Challenge” non era roba da supereroi, ma neppure per gente che si piange addosso: si trattava di un raid in mountain bike, in sentieri impervi tra i deserti e le montagne del Marocco, dalla catena montuosa dell’Alto Atlante al massiccio vulcanico del Jebel Saghro, sino alla famosa Draa Valley. In tutto, 460 km. Per dimostrare, a se stesse prima che al mondo, che spesso l’impossibile è possibile.

Anche in Italia si diffonde la piaga del lavoro minorile: Save The Children spiega perché “Non è un gioco”

di Redazione GRS


 

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Non è un gioco

Il lavoro minorile è un fenomeno globale che non risparmia l’Italia, i dati dell’indagine di Save The Children. Il servizio di Pierluigi Lantieri.

Secondo il rapporto di Save The Children “Non è un gioco”, quasi un minore su 15 in Italia ha avuto esperienze di lavoro. Tra chi dichiara di svolgere un’attività, quasi il 20% ha fatto lavori particolarmente dannosi per i percorsi educativi e per il benessere psicofisico. Ristorazione, vendita al dettaglio e attività in campagna sono i settori in cui il fenomeno è più diffuso. Il 30% di chi lavora lo fa durante i giorni di scuola: dai dati emerge che la percentuale di minori bocciata è quasi doppia tra chi ha lavorato prima dei 16 anni rispetto a chi non ha mai lavorato.

I canali d’acquisto dei consumatori italiani: “Oggi il primato va ai centri commerciali”

di Redazione GRS


Canali d’acquisto

I consumatori italiani tornano a preferire il negozio fisico dopo la pandemia ma Generazione Z e Millennials preferiscono l’online. Lo rileva un sondaggio Swg, ascoltiamo il ricercatore Riccardo Benetti.

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“Arrivederci stelle”: la Nuova Ecologia dedica la storia di copertina all’inquinamento luminoso

di Redazione GRS


Proteggiamo il futuro

Secondo una ricerca pubblicata su “Science”, un bambino nato oggi in un luogo dove sono visibili 250 stelle, quando compirà 18 anni potrà vederne appena 100. “Arrivederci stelle” è il titolo della storia di copertina di Nuova Ecologia di aprile dedicata alle cause ed effetti dell’inquinamento luminoso sulla nostra salute e sulla biodiversità.

Lo sport entra nel carcere di San Vittore con “Liberi di giocare”: il progetto di Csi Milano

di Redazione GRS


Liberi di giocare

I detenuti di San Vittore, a Milano, e di Monza, grazie alle società sportive partecipano con entusiasmo alle proposte del progetto promosso dal Csi territoriale: grazie a Liberi di giocare lo sport entra nelle carceri per garantire ai detenuti allenamenti e partite.

Tra i numerosi progetti che il Csi, il Comitato di Milano svolge sull’hinterland e, nello specifico presso le carceri, ce n’è uno che riguarda la “Casa Circondariale Francesco Di Cataldo”, conosciuta come il carcere di San Vittore: “Liberi di giocare”, all’insegna dello sport, per garantire ai detenuti allenamenti e partite di calcio, basket e pallavolo. Proprio nell’ambito del progetto calcio, nelle scorse settimane è avvenuto un episodio degno di nota: durante uno dei tanti e soliti allenamenti svolti all’interno della struttura penitenziaria, tra i detenuti che partecipano con costanza si nota subito l’assenza di chi è sempre presente, ovvero Paolo. La sua assenza non passa inosservata, ma nessuno decide di dargli troppo peso, anche perché spesso capita che al sabato i detenuti si ritrovino impegnati nei colloqui con i familiari. Dopo quasi mezz’ora dall’inizio dell’allenamento, però, accade qualcosa di inaspettato: Paolo è assente per un motivo ben preciso, perché ha ricevuto la notizia che attendeva da tempo, ovvero è libero e può finalmente uscire.

Si sente il rumore inconfondibile del giro di chiave da parte dell’agente, entra Paolo in campo – indossa jeans e un maglioncino, non la solita divisa sportiva – e scatta un applauso: in campo, dalle finestre, nei corridoi. Applaudono tutti, partono anche i cori in suo onore: “Paolino, Paolino, Paolino”. Paolo è quasi un uomo di mezza età e, dopo due anni e otto mesi, torna a rivedere la luce del sole. Tanto affetto è giustificato proprio dalla sua età e perché dentro il Carcere di San Vittore nel corso del tempo è diventato un punto di riferimento, voluto bene e rispettato. Abbracci interminabili da parte di tutti, con Paolo che si ritrova spaesato, in una situazione in cui probabilmente non è abituato a fronteggiare, non sapendo da che parte voltarsi prima, inondato da così tanta umanità dai suoi “compagni di cella” da farlo sentire quasi in imbarazzo.

Travolto dall’affetto della sua famiglia, sì perché dopo anni che condividi ogni minuto della tua vita con le stesse persone, quelle stesse persone diventano la tua famiglia, lascia – quasi come se fosse una superstar dopo l’omaggio ricevuto – il campo e si dirige verso l’uscita: lì dove sa che c’è una nuova e seconda vita che lo aspetta. Spesso, verso le carceri e i detenuti, si ha un atteggiamento pregiudiziale, bollando come “carcerato a vita” – e quindi non un essere umano al nostro pari – una persona solo perché ha varcato, meritatamente o meno, i cancelli di un carcere. Ci si dimentica che ogni persona che finisce dentro, porta con sé una storia, gioie, dolori, sofferenza, rabbia e anche – soprattutto – tanti errori. Ma la storia di Paolo ci restituisce tanta umanità e fa capire quanto noi umani siamo persone fragili. Basta un secondo per compromettere la nostra vita. Ma anche un secondo per tornare a essere umani. Al di là tutto e al netto di tutti gli errori che possiamo commettere, chiunque merita una seconda chance. E la merita anche Paolo, che è tornato a vivere e a svegliarsi con una nuova luce: quella della libertà.

“Assegno sociale per il lavoro”: arriva la proposta della Caritas per il post reddito di cittadinanza

di Redazione GRS


 

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Rilanciare il dibattito

Dopo la decisione del Governo sul reddito di cittadinanza arriva la proposta della Caritas. Il servizio è di Giuseppe Manzo.

All’ipotesi, studiata dal governo, di introdurre una nuova Misura di inclusione attiva (Mia) si affianca ora lo studio della Caritas su Reddito di Protezione e Assegno sociale per il lavoro messa a punto da un gruppo di studiosi coordinati da Cristiano Gori (Università di Trento), mira a valorizzare l’esperienza degli ultimi anni per superare le criticità e costruire politiche contro la povertà che effettivamente siano mirate alle persone che vivono in questa condizione: l’Assegno sociale per il lavoro ha come obiettivo di fondo il reinserimento lavorativo, mentre il Reddito di Protezione (REP) ha invece come obiettivo di fondo la garanzia del diritto a uno standard di vita minimamente accettabile.