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Alessandra Cappellotto vince il premio “Sport e diritti umani”

di Redazione GRS


Traguardo solidale: Amnesty International e Sport4Society hanno assegnato il premio “Sport e diritti umani” ad Alessandra Cappellotto. Veneta, una carriera da ciclista su strada, si è prodigata per settimane per portare in Italia un gruppo di giovani cicliste mentre l’Afghanistan cadeva in mano ai combattenti talebani.

“Il premio che ho vinto può certamente accendere i riflettori sull’Afghanistan, ma vorrei che servisse a trasmettere un messaggio agli atleti: tutto quello che lo sport ci dona – tenacia, cuore, amore per le sfide e la conoscenza di tante persone – può essere restituito aiutando gli altri, con facilità”. Ne è certa Alessandra Cappellotto, veneta, una carriera da ciclista su strada, prima in Italia a conquistare il titolo mondiale ai campionati di San Sebastian nel 1997. L’agenzia Dire la intervista perché è a lei che Amnesty International e Sport4Society hanno conferito l’edizione 2022 di ‘Sport e diritti umani’, che premia quegli atleti che hanno compiuto imprese in campo “umanitario”, sposando cause solidali o di tutela dei diritti umani, e che nelle passate edizioni ha visto brillare l’ex calciatore Claudio Marchisio, il cestista Pietro Aradori e il Pescara Calcio.

Cappellotto stavolta ha tagliato il traguardo perché si è prodigata per settimane per portare in Italia un gruppo di giovani cicliste mentre l’Afghanistan cadeva in mano ai combattenti talebani che in poco tempo hanno imposto un regime che è arrivato a vietare la scuola e il lavoro alle donne, imponendo anche l’obbligo di indossare il velo integrale.

E l’impegno di Cappellotto non si è esaurito: continua a seguire le atlete nella loro vita quotidiana, tra allenamenti, studi universitari e nostalgia di casa. “La più giovane ha 16 anni e spesso ci chiede della mamma e del papà, rimasti in Afghanistan” racconta. “Il nostro principale obiettivo è permettere che si ricostruiscano una vita qui, con la speranza che un giorno possano tornare nel loro Paese”.

Portare queste giovani in Italia, un gruppo di 14 persone di cui fanno parte anche due ciclisti e alcuni parenti delle atlete, è stato un lavoro tutt’altro che semplice ma che Cappellotto è riuscita a portare a termine grazie all’associazione creata qualche anno fa proprio per sostenere le cicliste dei Paesi in via di sviluppo. Una sensibilità che combina l’amore per lo sport con l’attenzione per i diritti delle donne e le pari opportunità. “Quando ho concluso la carriera- ricorda l’ex campionessa del mondo- mi sono resa conto che neanche nei Paesi ciclisticamente avanzati come Italia, Francia o Spagna esisteva un solo sindacato che rappresentasse le cicliste professioniste. La Cycling Professional Association, infatti, è solo per uomini. Così, ho fondato la Cycling Professional Association – Women”. Un’associazione di cui oggi è presidentessa.

“Dopo un po’ di tempo hanno iniziato a contattarmi cicliste dal Ruanda, poi da Nigeria, Costa d’Avorio, Algeria, per avere aiuto con l’attrezzatura o il visto per l’estero”. Ragazze e donne appartenenti a contesti dove a volte alla passione per lo sport, bisogna anteporre la lotta per la sopravvivenza. “Scoprendo le loro storie e il loro modo di portare avanti il ciclismo nonostante le difficoltà, mi sono sempre più appassionata” ammette Cappellotto, che per rendere più agile il suo lavoro ha creato l’associazione Road to Equality.

E’ stato grazie a questa rete di associazioni che l’8 marzo 2021 – 160 giorni prima dell’arrivo dei talebani – Cappellotto organizza a Kabul una gara di ciclismo femminile con la Federazione ciclistica afghana. “E’ stata una manifestazione importante ed entusiasmante per le atlete” dice la fondatrice di Road to Equality, “ma dopo qualche settimana il presidente della Federazione mi avvertì che la situazione stava diventando preoccupante”. I guerriglieri stavano guadagnando terreno.

Cappellotto decide di mettersi “subito a disposizione”, proponendo che le atlete possano essere messe al sicuro in Italia. Poi, il 15 agosto, l’ingresso dei talebani nei palazzi del governo di Kabul. Da allora fino al 31 agosto, giorno in cui le truppe americane hanno lasciato il Paese ed è terminato il ponte aereo organizzato dal governo Draghi, “abbiamo lavorato quasi 24 ore su 24, mobilitando le istituzioni italiane e l’Unione ciclistica internazionale (Ciu). Fondamentale anche l’organizzazione Cospe Onlus (attiva con progetti di sviluppo fino al 2018, ndr) che ci ha supportato nella selezione delle persone da inserire in lista”. Giorni intensi spesi a rispondere a richieste di aiuto, dare rassicurazioni, nonché raccogliere e trasmettere documenti alle autorità italiane mentre la lista “spuria” delle cicliste si andava ingrossando coi nomi di alcuni famigliari che correvano troppi rischi a restare nel Paese.

Il tutto in coordinamento coi militari italiani sotto il comando del generale Leonardo Tricarico. “Il momento peggiore?” risponde Cappellotto. “Quando ci è stato chiesto di ‘sfoltire’ la lista perché non c’erano sufficienti posti a bordo. Ma anche quando abbiamo saputo dell’attentato all’aeroporto, a cui il nostro gruppo è scampato. I militari italiani sono stati cruciali nel darci suggerimenti per tutelare le ragazze, che per giorni hanno dormito fuori dell’aeroporto aspettando di poter salire sui C130 italiani. Alcune sono state picchiate dai talebani, altre minacciate. C’è chi non ce l’ha fatta ed è tornata a casa. Siamo ancora in contatto con loro, continuano a chiederci aiuto anche profughi arrivati intanto in Iran e Turchia”.

Per questo Cappellotto conclude lanciando un appello agli sportivi: “Per me, fare il Tour de France, il Giro d’Italia, così come le ore trascorse in allenamenti estenuanti mi hanno tolto la paura degli ostacoli e donato la forza per superarli, oltre ad avermi permesso di fare la conoscenza di molte persone. Sono tutti strumenti che mi hanno permesso di aiutare chi ha bisogno, nonostante vivessi lontanissima da queste questioni. Ha funzionato per me che sono una ciclista ma vale per tutte le altre discipline”.
Una fatica, assicura l’ex campionessa mondiale, che premia con le soddisfazioni: “E’ stata una gioia indescrivibile iscrivere le nostre ragazze all’università, oppure vederle domenica scorsa salire in bici e partecipare a una Gran fondo, pensando a quello che ora invece le attenderebbe nel loro Paese”.

 

Salario minimo, anche per le Acli “urge fissare soglie retributive minime”

di Redazione GRS


 

 

 

Un salario minimo: a chiederlo sono anche le Acli con il vicepresidente nazionale Stefano Tassinari. Il servizio è di Giuseppe Manzo.

“Urge fissare soglie retributive minime dando ai contratti nazionali più rappresentativi efficacia obbligatoria per ogni categoria, perché l’impoverimento del lavoro passa dalla paga oraria, ma non solo: è dovuto spesso a contratti pirata, a condizioni di sfruttamento e di ricatto, a tanto part time involontario (specie per le donne e i giovani) e a tanto lavoro grigio, spesso più vulnerabili anche dal punto di vista della sicurezza e della salute”. Così Stefano Tassinari, Vicepresidente nazionale delle Acli, sulla direttiva che l’Unione Europea si appresta ad adottare in maniera definitiva sul salario minimo europeo.

“Uruguay, no vayas”: le organizzazioni sociali contro l’arrivo in Israele della Nazionale pre-Mondiali

di Redazione GRS


“¡No vayas!”: molte organizzazioni sociali uruguaiane chiedono alla nazionale di calcio maschile di non accettare l’invito dello Stato di Israele a svolgere nel Paese la fase finale di preparazione per i prossimi Mondiali. L’iniziativa mira a sensibilizzare l’opinione pubblica sulle violazioni dei diritti umani ai danni dei palestinesi.

Secondo un comunicato, i “gruppi di solidarietà e organizzazioni sociali” che fanno parte dell’iniziativa chiedono “all’AUF e alla nostra squadra di calcio maschile di NON accettare l’invito dello Stato di Israele a svolgere la fase finale di preparazione in quel Paese per i Mondiali, in viaggio per il Qatar”.

Venerdì scorso, il membro del Comitato Esecutivo dell’AUF Jorge Casales ha informato il settimanale Brecha che la proposta di fare uno scalo precedente in Israele proveniva da “uomini d’affari o intermediari”, e oltre a fornire un luogo di concentrazione e formazione, potrebbe comportare la disputa di un’amichevole, più una cifra che non è stata ancora comunicata. “Israele è uno stato di apartheid. Le principali organizzazioni israeliane e internazionali per i diritti umani hanno concordato su questo nell’ultimo anno. Le organizzazioni palestinesi denunciano l’apartheid israeliano da due decenni”.

“Quando il Sudafrica viveva sotto un regime di apartheid, ci fu una potente campagna internazionale per sanzionare e isolare quel paese; e lo sport ha giocato un ruolo chiave in quella campagna. Per questo non vogliamo che la nostra nazionale macchi l’amata maglia azzurra diventando complice dell’apartheid”, hanno aggiunto.

Secondo il comunicato delle organizzazioni sociali, “gli inviti che Israele rivolge a giocare amichevoli o ad allenarsi nel suo territorio fanno parte di una campagna per imbiancare la sua immagine internazionale – sempre più deteriorata – e nascondere i crimini che commette quotidianamente contro i palestinesi persone, contro i loro calciatori e atleti”. In questo senso, affermano che “i giocatori palestinesi sono costantemente attaccati, uccisi, feriti, mutilati, repressi, imprigionati dall’occupazione coloniale israeliana”. A loro volta, fanno notare che queste popolazioni “non possono radunare la squadra nazionale (distribuita tra Gaza e la Cisgiordania), né allenarsi, né andare all’estero per partecipare a competizioni internazionali”. Nell’ultimo anno, ricordano i promotori dell’iniziativa, “le forze israeliane hanno assassinato tre giovani calciatori in Cisgiordania: Mohammad Ghneim (19), Saeed Odeh (16) e Thaer Yazouri (18)”.

“Per tutte queste ragioni -e altre che svilupperemo durante questa campagna-, oggi diciamo all’AUF e alla squadra uruguaiana: ascoltate la chiamata dei vostri colleghi palestinesi, del popolo palestinese e dei suoi atleti, e dell’intera comunità internazionale che li supporta. Non gettare a mare il prestigio della nostra nazionale e non appannare il cielo collaborando per insabbiare i crimini dell’apartheid israeliano”, affermano le organizzazioni.

I firmatari sono 22 organizzazioni: Coordination for Palestine, Mothers and Relatives of Disappeared Deteinees, Human Rights Secretariat of the PIT-CNT, Uruguayan Federation of Housing Cooperatives for Mutual Aid, Federation of University Students of Uruguay, Peace and Justice Service, Palestine Club of Uruguay, Obiettivo dell’impunità, Ribellione organizzata, La Garganta Poderosa Uruguay, Collettivo contro l’impunità, Comitato Palestina libera, Plenaria di memoria e giustizia, Associazione federale dei funzionari dell’Università della Repubblica, La Izquierda Diario Uruguay, El Galpón de Corrales, Commissione di Sostegno al popolo palestinese, gonfio di memoria, Coordinamento della solidarietà con il popolo haitiano, Comunità indigena Danan Vedetá, Comunità Charrúa Basquadé Inchalá e Memoria in libertà.

Come hanno riferito al quotidiano , oltre a una lettera firmata da tutte le organizzazioni, è stata consegnata all’AUF anche una lettera del club palestinese Al Jader, “alla quale sono stati recentemente uccisi due calciatori”. La campagna “Uruguay, non andare!” invita “gruppi e istituzioni sociali, sportive, culturali e per i diritti umani ad unirsi per esprimere pubblicamente la propria adesione” alla richiesta rivolta all’AUF. Per seguire la campagna sono stati creati gli account Twitter @NovayasUy e Uruguay NOvayas su Instagram.

Presentato l'”Atlante Fidaldo”: la mappa dei sostegni del lavoro domestico

di Redazione GRS


 

 

Welfare territoriale e lavoro domestico: la mappa dei sostegni. Il servizio è di Anna Monterubbianesi.

Presentato l’ “Atlante Fidaldo”, una mappa interattiva nazionale e regionale dei sostegni oggi a disposizione delle famiglie che assumono lavoratrici e lavoratori domestici nei singoli territori, realizzata da Fidaldo e istituto di ricerca sociale.

Ne emerge un panorama molto variegato degli interventi messi in campo: nella maggior parte dei casi misure a sostegno del lavoro di cura svolto dalle badanti, mentre pochissimo è previsto per baby-sitter, e il mercato delle colf – per sua natura privato – non rientra nelle misure di welfare territoriale.

In assenza di una cornice legislativa nazionale di riferimento, le buone pratiche e gli sforzi condotti dalle regioni per qualificare e far emergere il lavoro di cura sommerso faticano a tradursi in interventi di effettivo impatto.