Archivi

CRISI, LE AZIENDE NON PAGANO: BOOM DEL RECUPERO CREDITI

giornalistiRecupero crediti e stipendi non pagati: la crisi la pagano ancora i lavoratori. Dallo studio sui dati dell’Ufficio vertenze del lavoro della Cgil di Milano emergono i numeri di questa situazione. Nel primo semestre del 2014 sono state aperte 670 pratiche per il recupero credito: sono la voce più importante delle 2.394 vertenze partite tra gennaio e giugno. Il dato 2013 era di 1.817 casi di recupero credito su un totale di 5.239 vertenze. Il record storico registrato dallo sportello della Camera del Lavoro è stato nel 2010: 2.289 casi di recupero crediti su un totale di 5.838 vertenze. “I lavoratori sono diventati una forma di ammortizzatore sociale non riconosciuta”, commenta Graziano Gorla, segretario della Camera del Lavoro di Milano.

 

Nella categoria rientrano i licenziati che non hanno ottenuto il Tfr, quelli a cui non sono state versate della mensilità, lavoratori a cui l’azienda deve versare degli arretrati, ma ne paga solo una parte. A queste si aggiunge anche una categoria che è molto più difficile da tracciare. Sono sempre più numerose, infatti, le aziende con meno di 15 dipendenti che non licenziano ma non pagano gli stipendi. “Molti hanno paura a rivolgersi a noi perché non vogliono perdere il posto di lavoro”, aggiunge Gorla.

Per il sindacato, dall’introduzione della Legge Fornero con la possibilità di licenziare più facilmente anche nelle aziende con meno di 15 dipendenti, la difesa del lavoratore è diventata sempre più difficile. Secondo Marco Locati, responsabile dell’Ufficio vertenze, “il legislatore di tutti i colori politici in questi anni si è accanito per deregolamentare il mercato del lavoro”. E ci ha rimesso anche il diritto del lavoro, sulla base di due falsi miti: la necessità di ridurre le lungaggini burocratiche dei processi e una maggiore richiesta di flessibilità come antidoto alla crisi. “Il Tribunale di Milano è sempre stato virtuoso: al massimo in un anno si arrivava a primo grado. Non era necessario cambiare il sistema”, spiega Locati. Falso anche il mito della flessibilità: “Più di così non è possibile e comunque non siamo ancora fuori dalla crisi”, continua.

(Fonte: Redattore Sociale)

 

Altra selva burocratica tutta la normativa per il recupero crediti nel caso di aziende che hanno avuto un appalto, normata dai decreti datati 22 maggio 2012. “È molto complesso risalire la filiera e chiedere conto alle stazioni appaltanti”, è il commento di Cgil. E quando a dare l’appalto è un’ente pubblico “il credito del lavoratore è perso e l’unico modo per ottenere almeno qualcosa è rivolgersi al Fondo di garanzia del’Inps”, aggiunge Locati.

 

Quando il gioco era responsabile

Il tema della Ludopatia è azzardoin discussione in questi giorni. Un segnale che il problema sta raggiungendo costi economici e sociali troppo alti. In compenso e in dissenso, cresce il numero degli esercenti che rifiuta le slot nel proprio locale e aumentano iniziative dei Comuni per agevolare e andare incontro alle scelte responsabili dei cittadini. Qualche mese fa la campagna Slotmob ha premiato 52 gli esercenti per essersi rifiutati di installare nei loro locali le slot machines, rinunciando ad incassi sostanziosi (1.500/2.000 euro al mese) e dimostrando un forte senso civico. Con loro, oltre 150 associazioni e Comuni in tutta Italia hanno aderito alla campagna per dare un segnale di responsabilità con la loro scelta no slot, bloccando così un meccanismo ingarbugliato che vede coinvolti politici, lobby e multinazionali.

Tutto è cominciato a Milano lo scorso anno da un gruppo di clienti dei bar del centro che ha dato vita ad una campagna di consumo critico decidendo di non frequentare più quei locali con le slot a vantaggio,  invece, di quelli che organizzavo tornei di carte, biliardino e altri giochi da tavola.

Se è d’azzardo, d’altra parte, non è un gioco. Ma anzi, i pericoli sociali e di salute, ad esso connessi sono altissimi. E non basta dire “gioca responsabilmente” o “il gioco provoca dipendenza”, quando poi i cittadini sono bombardati quotidianamente da pubblicità che, invece, al giocano incitano. Con molta poca responsabilità.

Link utili:

Pedalate sostenibili

staffettaDal 9 al 13 settembre si svolgerà la 14^ edizione di “Bicistaffetta“, evento organizzato dalla Federazione Italiana Amici della Bicicletta per promuovere lo sviluppo della rete ciclabile nazionale e il cicloturismo. Quest’anno in programma un percorso in bicicletta lungo la Ciclovia Romea – Francigena” che, dopo Napoli, toccherà le città di Benevento, Cassino, Fiuggi Roma. La pedalata sarà intervallata da incontri con cittadini, amministrazioni pubbliche e organi di informazione in cui i partecipanti porteranno esempi concreti dei territori attraversati con l’intento di sensibilizzare i vari attori sociali sull’uso della bici e sulle risorse da promuovere e sviluppare in materia di cicloturismo.

ll percorso di Bicistaffetta 2014 si muove su circa 300 km di strada e contempla scorci e passaggi suggestivi, molti dei quali inusitati, con lo scopo di “esplorare” il territorio e consolidare la fruibilità del percorso. Si parte dalla sannitica Benevento e si segue il corso dell’antica via Latina, che attraversa le fertili campagne di vitigni e ulivi bagnate dal Volturno. A Venafro si apre uno dei più cruenti teatri di guerra del secondo conflitto mondiale che vide il suo epilogo nella battaglia dell’abbazia di Cassino, di cui quest’anno ricorre il 70° anniversario. Ci si inoltra, poi, nel cuore dell’Appennino attraverso i luoghi di millenaria spiritualità della valle di Comino, come l’abbazia di Casamari. La via che conduce infine alla Capitale è l’antica Prenestina che transita per Fiuggi dove, per chi lo desiderasse, è possibile godersi una sosta rilassante nelle celebri terme prima di riprendere il cammino. L’arrivo a Roma è previsto per il pomeriggio di sabato 13, coronato dalla cerimonia di chiusura di Bicistaffetta 2014.

La Ciclovia Romea Francigena – presa stavolta in direzione opposta rispetto al percorso che scende dal nord verso la capitale della cristianità – corrisponde all’itinerario n°3 del grande progetto Bicitalia,  la prima mappa della rete cicloturistica nazionale realizzata da FIAB e dal ministero dell’Ambiente. In realtà, questo tratto di Bicitalia (1500 km) è il segmento italiano dell’itinerario “Eurovelo 5″ che, come la Via Francigena originale, da Canterbury arriva fino a Brindisi, transitando, ovviamente, per la Città eterna.

In occasione di Bicistaffetta il percorso sarà completamente dotato di segnaletica leggera – con la presenza di adesivi sui cui è riportato il logo Eurovelo – che consentirà ai partecipanti di mantenere agevolmente il contatto con il gruppo e di verificare con riferimenti sicuri, da vere “sentinelle dell’ambiente”, lo stato delle vie ciclabili.

Contro la mafia

cassaraSono oltre cento i ragazzi, provenienti da tutto il mondo, che hanno rifatto il look al liceo linguistico Ninni Cassarà di Palermo. Hanno partecipato a S.o.S. Scuola un progetto nazionale partito proprio da Palermo e che vedrà nel prossimo autunno un gemellaggio con il liceo artistico Guggenheim di Venezia che in questa prima occasione ha prestato aiuto ai colleghi di Palermo. Oltre a dipingere con murales trasformando i corridoi in una vera e propria galleria d’arte è stato ristrutturato anche il bar della scuola che ha dato il nome ad una web series ‘Il Bar del Cassarà’ prodotta dalla Rai e progettata da Alveare Cinema. La riapertura del bar è il segnale della scuola contro l’illegalità e la mafia.

Ebola, cresce il panico per l’epidemia

guinea_sierraleone_liberiaLa più grande epidemia di Ebola della storia. E’ quella che si sta consumando in diversi paesi dell’Africa occidentale. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, da gennaio i morti sono 672 e i casi accertati più di 1200; Guinea, Liberia e Sierra Leone i paesi fino ad oggi coinvolti. Una malattia terribile, per cui non esiste cura.
La Liberia cerca di correre ai ripari: scuole chiuse, 30 giorni di ferie obbligatorie per i dipendenti statali “non essenziali”, disinfestazione di tutti gli uffici pubblici, messa in quarantena delle comunità colpite.
In Sierra Leone chiusi i teatri, i cinema e i bar e rinviati a fine agosto gli esami pubblici di terza media previsti a luglio.
Ma cresce il panico e la paura che la malattia possa espandersi ancora:  il 22 luglio un uomo liberiano è morto a Lagos, in Nigeria. La paura della diffusione dell’epidemia anche in Nigeria ha fatto scattare l’allarme delle autorità, con una stretta sui controlli per i voli i partenza dalle zone a rischio.
Secondo il direttore delle operazioni di Medici senza frontiere, Bart Janssens, “se la situazione non migliora abbastanza rapidamente, c’è il rischio reale di vedere nuovi Paesi colpiti”.
L’Unione europea ha stanziato altri due milioni di euro per fronteggiare la crisi sanitaria.

Tra due mesi torna la Move Week: l’Europa si mette in moto!

banner_300x250moveweekMeno due mesi: parte il countdown per la terza edizione della MOVE Week. Il più grande evento europeo di sportpertutti, organizzato da ISCA (International Sport and Culture Association) e coordinato in Italia dall’Uisp, si terrà dal 29 settembre al 5 ottobre, con iniziative in tutta Europa. MOVE Week è l’evento di punta della campagna NowWeMove, il cui obiettivo è combattere la sedentarietà e rendere “100 milioni di cittadini europei in più attivi entro il 2020”.

Quindi dal 29 settembre, tutti giù dalla poltrona! Tante le iniziative organizzate per promuovere il movimento e i suoi benefici: a due mesi dall’inizio dell’iniziativa sono già confermati 12.000 partecipanti, grandi e piccoli, e oltre 550 volontari coinvolti nell’organizzazione. Partner nazionale dell’evento sarà l’ANCI (Associaizone Nazionale Comuni d’Italia).

Il 20 settembre ci sarà l’anteprima della MOVE Week con un Flash mob europeo, che vedrà più di 50 gruppi celebrare il movimento con una coreografia animata in oltre 30 paesi d’Europa in contemporanea. La Move Week è stata lanciato per la prima volta nel 2012, ottenendo nell’edizione “zero” il grande risultato di oltre 120 eventi in 23 Paesi differenti. Nel 2013 la MOVE Week in Italia, coordinata dall’Uisp,ha raggiunto la numeri importanti, con oltre 17.000 partecipanti e 1.500 volontari coinvolti.

Ad oggi, a due mesi dall’evento, sono già più di trenta gli eventi previsti in 26 città italiane, tra cui segnaliamo a Bologna “1 km in salute”: nei parchi cittadini dove si svolgerà l’evento, sarà presente un percorso piano di 1 km con 10 tabelle che riporteranno il tempo progressivo e la giusta velocità per percorrerli; operatori Uisp somministreranno alle persone un semplice test per conoscere la giusta intensità personale. A Sassari “Yes we move!”: l’evento prevede sport outdoor (canoa, surf, vela trekking, arrampicata, skateboarding) all’interno di un camping sul mare. A Biella “Le due carceri”: gara podistica che attraverserà le vie cittadine e il verde dei parchi, in 6 km che partiranno dalla Casa circondariale e attraverseranno il quartiere piazzo, sede del vecchio carcere e il parco del Bellone. A Manduria (Ta) “A spasso nel tempo dalla transumanza alla perdonanza nelle vie del vino e dell’olio”. Un invito al viaggio ed al movimento, passeggiando nell’antico tratturo (le via d’erba lungo la quale avveniva la transumanza), tra “pajare”, “furnieddri”, “caseddri” (costruzioni in pietra a secco della civiltà contadina) e riti, credenze e pratiche di culto della religiosità contadina e pastorale per l’Indulgenza delle pene temporali.

E ancora passeggiate in bicicletta, camminate e esibizioni sportive nelle piazze di decine di città.

Aggiornamenti: moveweek.eu e www.isca-web.org

Da rosa “shocking” a rosa “stalking”

FemminicidioLuci ed ombre sulla recente normativa contro la violenza alle donne, a pochi giorni dell’entrata in vigore della convenzione di Istanbul . Ne parliamo con Titti Carrano, Presidente dell’associazione Di.Re – Donne in rete -.

Sembra ieri quando, per simboleggiare il massimo della femminilità e della stravaganza negli anni ‘60, si usava il termine  legato ad un colore, “rosa shocking”…..Ma oggi non si può più coniugare l’essere donna attraverso costumi o comportamenti adeguati al tempo che stiamo vivendo perché questo fa scattare nell’uomo, compagno, marito, fidanzato, o qualsiasi sia il rapporto tra uomo e donna, una sorta di barriera, a volte di difesa, troppe volte di attacco, con risultati davvero distruttivi dell’immagine della donna e della sua vita stessa, tanto da assumere l’appellativo infelice di “rosa stalking”.

E’ recente la notizia, passata inosservata, nel più disumano degli anonimati, oltre che di una pessima informazione, di una donna vista “volare come un angelo” dal balcone della propria abitazione a Faella (Firenze), così dicono i testimoni che hanno assistito alla tragedia: “spinta” da “che  cosa” o da “chi”, non è stato nemmeno sfiorato nel trafiletto, ma si è saputo appena che ha due figli e che era separata …… Possibile che i cittadini attivi siano così inattivi nel parlare? Nel denunciare queste situazioni ben note a tutti, “dopo” che accadono, ma mai denunciarle prima che “accadano”? Per fortuna la mamma di Faella  è sopravvissuta a quel “volo d’angelo”, ma con fratture multiple al bacino, alle costole, alle gambe, e ne avrà per parecchio tempo prima di tornare ad una vita, si spera, più tranquilla di prima! Ma quale  ferita più grande le resterà: quella di avere amato l’uomo sbagliato? O di non avere avuto nessuno con cui confidarsi?

Ma cosa si sta facendo, in termini di normativa, per arginare questo fenomeno sempre più in aumento nel nostro Paese, e soprattutto, quali prospettive di un futuro  più sereno che possa chiamarsi tale per le donne?

Lo abbiamo chiesto a  Titti Carrano, Presidente  dell’associazione Di.Re (www.direcontrolaviolenza.it/)

– Donne in rete, che ha subito individuato alcune criticità nella recente legge regionale, n. 4 dell’8 marzo 2014:

“La legge regionale, n. 4 del 2014, è una legge che sicuramente, nel sito, non fa sperare bene, cioè un “riordino delle disposizioni per contrastare la violenza contro le donne”, in quanto basata sul “genere”.

E’ importante il titolo, in quanto fa riferimento alla violenza contro le donne, solo perché donne. E’ un passaggio importante che viene sottolineato ed è fondamentale anche nella Convenzione di Istanbul, che entrerà in vigore, in Italia, e negli altri Stati che lo hanno ratificata, il primo agosto 2014. E però, poi, nell’articolato della legge, questo buon intendimento proposito, purtroppo non è stato, poi, articolato, manca una prospettiva di “genere” , un’ottica di genere, sia in riferimento alle forme di ospitalità, che sono previste dalla legge, sia proprio anche sulla identificazione di quelle che la legge definisce “strutture di accoglienza”. C’è una totale equiparazione tra strutture pubbliche e private, si fa riferimento soltanto all’elemento della presenza di personale solo femminile. Però questo elemento non basta, perché non coordinato con l’elemento fondamentale che è il problema della violenza maschile contro le donne che deve essere affrontato secondo un’ottica di genere, come è richiesto esplicitamente dalla stessa convenzione di Istanbul.

D – In concreto, seconda la normativa attuale,  una donna che si sente in stato di pericolo, cosa può fare prima che accada il peggio?

R – Le donne hanno diritto a rivolgersi ad un centro antiviolenza che non è soltanto semplice servizio, ma è un luogo da cui partono politiche e pratiche della prevenzione e contrasto del fenomeno, quindi sarebbe stato opportuno inserire, nel testo della legge, appunto, che gli interventi devono essere espletati e fatti con un’ottima visione d’insieme e un approccio di genere. Così come la nascita, anche di sportelli di ascolto e di consulenza, di sostegno alle donne e ai loro figli minori, anche qui, era necessario fare una sottolineatura sull’ottica e l’approccio di genere, oltre, chiaramente, al fatto che il personale dovesse essere solo ed esclusivamente femminile.

D – Quello che lei afferma è, senza dubbio,  di notevole rilievo, ma coincide con i principi della Convenzione di Istanbul che entrerà in vigore dal 1° agosto?

R – Volendo rispondere a quella che dal primo agosto 2014 sarà una legge di Stato, è questa una carenza fondamentale. Nell’articolato della legge si parla anche, per esempio, di raccolta dati per la nascita di un Osservatorio. Sicuramente la raccolta dei dati è un elemento importante e fondamentale, perché ci sia l’analisi del fenomeno sia da un punto di vista quantitativo, che qualitativo, però, anche qui, bisogna  precisare che la raccolta dei dati deve essere disaggregata per genere, ce lo chiede la convenzione di Istanbul, ce lo chiede anche la relatrice speciale delle N.U., Rashida Manjoo, che ha redatto un rapporto molto compiuto sulla sua visita nel nostro Paese, rivolgendo anche delle particolari raccomandazioni all’Italia.

Quindi, diciamo che è una legge che sicuramente può essere vista, appunto, come una legge che non risponde all’emergenza, quindi un tentativo di affrontare il fenomeno della violenza maschile contro le donne, in un’ottica di interventi strutturati e integrati. Vedremo quella che sarà l’applicazione della legge, ma partiamo, chiaramente, da una carenza fondamentale che poi dà proprio il senso a tutta le legge, cioè manca una definizione di violenza maschile contro le donne, manca un’ottima di genere in tutti gli interventi che sono previsti dalla legge regionale, quindi parlo di informazione e sensibilizzazione, prevenzione, interventi nelle scuole, con le forze dell’ordine, tutto ciò che l’articolato della legge prevede.

D – Non pensa, allora, che questa legge soffra un po’ di solitudine? Mi spiego, non dovranno essere chiamati a sostenere nel percorso le donne colpite più o meno da violenze fisiche o psichiche soltanto i centri di ascolto o gli assessorati alle politiche sociali, ma  anche gli altri assessorati, dalla casa alla scuola, debbano essere coinvolti in questo percorso?

R – Assolutamente sì, gli interventi devono essere coordinati ed integrati altrimenti è chiaro che si rischia che all’interno della compagine regionale possano essere posti in essere degli interventi che non si integrano tra loro, ma che invece devono essere assolutamente coordinati. Lei faceva riferimento, giustamente, al problema della casa, un problema fondamentale, questo, molte donne restano e continuano a vivere con il partner violento perché non hanno la possibilità di poter trovare alloggi a prezzi accessibili. Nella legge regionale c’è un passaggio, c’è un riferimento, appunto, all’impegno della Regione di stabilire dei criteri proprio per l’assegnazione di edilizia pubblica, che possono essere, però, destinati a centri antiviolenza.

Su questo, devo dire, c’è ancora molto da fare, perché è importante che le donne vengano sostenute in tutte le fasi, in una fase, appunto, che può essere quella di prevenzione e di sensibilizzazione, di una fase in cui è necessario un intervento di protezione, e, soprattutto, una fase in cui le donne devono essere accompagnate ad una vita libera dalla violenza, perché il passaggio al centro antiviolenza, al centro rifugio, è un passaggio temporaneo, è un passaggio di un momento in cui la donna ha una difficoltà e viene accompagnata da operatrici specializzate, ad una vita libera. Quindi per rendere davvero le donne libere dalla violenza, occorrono delle politiche assolutamente integrate e coordinate e adeguatamente finanziate.

D – Si può legiferare molto su questo fenomeno, poi alla fine del percorso, come ha fatto notare lei, la donna torna ad essere sola e più fragile, se vogliamo, perché non avendo le strutture, non avendo una propria casa, la possibilità di ricostruirsi una vita, sicuramente è più esposta di prima.

R – Certo, ed è anche questo il rischio ed il motivo per cui tante donne non trovano la forza di lasciare l’ambiente violento in cui vivono. E’ chiaro che ci devono essere delle risposte istituzionali forti, importanti e che garantiscano alla donna, non solo il momento di passaggio in un centro antiviolenza che è il momento anche che si può considerare più di emergenza, ma un passaggio ad una vita libera. E allora è chiaro che devono ci devono essere delle politiche sociali, integrate, di politica abitativa, economica, di lavoro.

Sono veramente tanti, e tra l’altro, così noi rispondiamo non soltanto ai principi della Convenzione di Istanbul, ma anche alle raccomandazione della relatrice speciali delle N.U., Rashida Manjoo, quando ha raccomandato all’Italia proprio delle politiche integrate, davanti a quella che ormai è chiamata emergenza “femminicidio”.

D – La sua associazione, come nasce, qual è stato il motore che ha suggerito la creazione di questa associazione DiRe, donne in rete contro la violenza?

L’associazione nazionale nasce nel 2008, ma ha alle spalle oltre 20 anni di elaborazione di saperi in rete tra i centri antiviolenza, e nel 2008 54 associazioni hanno poi creato l’associazione nazionale con l’obiettivo di avere obiettivi politici importanti, comuni, condivisi, da porre all’attenzione e diventare così interlocutrici nelle politiche locali, regionali e nazionali. Questo è un percorso lungo che nasce proprio dalle attività dei centri antiviolenza, associazioni e case rifugio, molte delle  quali nascono proprio dal movimento delle donne e da associazioni e dal femminismo.

D – Lei si è identificata bene anche in questo personaggio, al di là della sua preparazione professionale, quindi si muove bene in questo ambiente conoscendo anche le normative e dando anche il suo personale contributo a questa associazione

R – Tutti i centri antiviolenza aderenti a DiRe hanno operatrici specializzate, intendo non soltanto quelle di accoglienza, ma tutte le professionalità che sono coinvolte, quindi ci sono avvocati, psicologhe, insomma sono tantissime le professionalità, però la cosa importante è che nel momento in cui tutte noi stiamo nel centro antiviolenza, ci spogliamo di quello che è il nostro ruolo, proprio perché noi  utilizziamo una pratica di relazione con le altre donne, in un rapporto di reciprocità e di relazione con la donna, ed è questo che ci contraddistingue rispetto a tante altre metodologie di altri servizi che esistono. Quindi è proprio su questo tipo di metodologia di approccio di genere in centri antiviolenza, di cui ho parlato, e possiamo noi rivendicare che se la violenza, oggi, è diventata un argomento di dibattito pubblico, è proprio grazie al lavoro che da tanti anni i centri antiviolenza hanno portato avanti con tante difficoltà, naturalmente, sono i Centri antiviolenza che hanno portato il movimento femminile che ha portato alla ribalta il tema e che ha nominato la violenza maschile sulle donne, quindi noi ci auguriamo e ci aspettiamo che parole come violenza maschile contro le donne e concetti di violenza di genere, approccio di genere, ottica di genere, siano una pratica politica anche, e quindi un’assunzione di responsabilità da parte del legislatore che possa essere regionale o nazionale”.

Insomma, ci sembra di capire che, nonostante gli sforzi fatti per arrivare ad un testo di legge universale”, ci sia sempre qualche ombra che non ne consenta la piena e corretta applicazione.

Per completezza di informazione,  riportiamo alcune notizie sulla  Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, detta “Convenzione di Istanbul”:  è una convenzione del Consiglio d’Europa contro la violenza sulle donne e la violenza domestica, approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 7 aprile 2011 ed aperta alla firma l’11 maggio 2011 a Istanbul (Turchia). Il trattato si propone di prevenire la violenza, favorire la protezione delle vittime ed impedire l’impunità dei colpevoli. È stato firmato da 32 paesi e il 12 marzo 2012 la Turchia è diventata il primo paese a ratificare la Convenzione, seguito dai seguenti paesi nel 2014: Albania, Portogallo, Montenegro, Italia, Bosnia-Erzegovina, Austria, Serbia, Andorra, Danimarca, Francia, Spagna e Svezia.

Il 19 giugno 2013, dopo l’approvazione unanime del testo alla Camera, il Senato ha votato il documento con 274 voti favorevoli e un solo astenuto. Di seguito il link del testo:

( http://www.pariopportunita.gov.it/index.php/primo-piano/2470-convenzione-di-istanbul-in-vigore-dal-1d-agosto)

 

Report Istat, CSVnet, FVP: ecco quanto vale il volontariato in Italia

giovani volontarie_ParmaNiente di nuovo sotto il sole: fare volontariato fa stare bene; ma quelli che s’impegnano di più per gli altri sono principalmente coloro che vivono in buone condizioni economiche, adulti e con un elevato titolo di studio.

A confermare questa fotografia il report “Attività gratuite a beneficio di altri” realizzato da Istat, CSVnet – Coordinamento Nazionale dei Centri di Servizio per il Volontariato –  Fondazione Volontariato e Partecipazione e con il Supporto del Centro di Servizio per il Volontariato del Lazio Spes. La rilevazione è stata condotta nel 2013, nell’ambito dell’indagine multiscopo Istat “Aspetti della vita quotidiana”, che ha ospitato un modulo di approfondimento per implementare il manuale OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro) sulla misurazione del valore economico e sociale del lavoro volontario.
Si tratta quindi della prima rilevazione sul lavoro volontario armonizzata agli standard internazionali. Nel report infatti si fa riferimento ad un’accezione ampia di volontariato, non legata solo alla partecipazione ad un’organizzazione del terzo settore, ma anche a comitati, movimenti, gruppi informali e altro.

Ecco i risultati: un italiano su otto fa volontariato; 6,63 sono i milioni di volontari operativi stimati, di cui 4,14 sono attivi in organizzazioni (7,9%) mentre  3milioni (5,8%) si impegnano in modo non organizzato .

A livello geografico il Nord Italia primeggia con un tasso di volontariato del 16%, rispetto al Sud che si ferma ad un tasso dell’8,6%.

Istruzione e condizione sociale influenzano l’impegno: la percentuale dei volontari con un elevato titolo di studio, come la laurea (22,1%), è superiore a quella di chi ha la licenza elementare (6,1%). Il report evidenzia anche il ruolo fondamentale di donne e anziani nelle attività di aiuto non organizzate e quantifica in 19 il monte ore (calcolate su quattro settimane) che in media gli italiani impegnano in volontariato. Coincidono, se quantificate con il criterio del monte ore lavorativo, con circa 875.000 unità occupate a tempo pieno.

Il volontariato sembra inoltre un’attività consolidata nel tempo, quasi una scelta di vita: il 76,9% dei volontari organizzati si dedica alla stessa attività da più di 3 anni, il 37,7% da oltre dieci. Le motivazioni identitarie solidali e valoriali guidano questa scelta: quasi i due terzi (62,1%) dei volontari organizzati fanno volontariato perché “credono nella causa sostenuta dal gruppo”.  La possibilità di stare con gli altri e di conoscere nuove persone (per il 41,6 % ), mettersi alla prova e acquisire competenze utili per il mondo del lavoro (28,1%) sono invece le ragioni che stimolano i giovani fino ai 34 anni e gli studenti a intraprendere un’attività di volontariato.

I commenti

Grazie a questa indagine siamo in grado di meglio conoscere i ‘profili’ di quei milioni di cittadini che ogni giorno spendono gratuitamente il loro tempo per gli altri – afferma Stefano Tabò, presidente di CSVnet – Il fatto che 4 milioni di questi preferiscano impegnarsi in organizzazioni strutturate dimostra come il volontariato sia ormai un fenomeno maturo e radicato in tutto il paese. Una realtà che il sistema dei Centri di Servizio per il Volontariato contribuisce a valorizzare con competenze e professionalità diffuse e capillari. La possibilità di equiparare i dati agli standard internazionali non può che accrescere il valore della ricerca, primo frutto di una intelligente collaborazione con Istat e Fondazione Volontariato e Partecipazione“.

La quantificazione del lavoro volontario in Italia -commenta il presidente della Fondazione Volontariato e Partecipazione Alessandro Bianchiniè una sperimentazione di grande rilievo perché fornisce dei numeri che fanno comprendere più a fondo cosa rappresenti oggi in Italia il volontariato e quali sono i suoi tratti distintivi, senza togliere importanza al valore dell’aspetto umano e relazionale del volontariato stesso. Abbiamo partecipato alla sperimentazione dando il nostro contributo scientifico perché crediamo che possa rappresentare un utile strumento di analisi, approfondimento e discussione per tutti i soggetti che a più livelli operano nell’attività volontaria, dalle reti del volontariato ai decisori pubblici“.

Per scaricare il testo integrale del report e la nota metodologica clicca qui

 

DA “ORTOFRÙ” COSTA MENO

foto_frutta_verdura_7015Un nuovo network commerciale ortofrutticolo offrirà oltre 20 nuovi posti di lavoro a disabili psichici e persone svantaggiate nelle province di Salerno e Potenza.

 

“Ortofrù, costa di meno vale di più”. Con questo slogan parte l’avventura della rete commerciale ortofrutticola che ha come obiettivo l’inserimento lavorativo di persone con disabilità psichica.

 

Giovedì 24 luglio, infatti, sarà inaugurato a Trecchina (Pz) il primo degli 11 negozi del network che nasceranno nei prossimi mesi tra la province di Potenza e Salerno. In ciascun punto vendita lavoreranno due persone, di cui una con disabilità psichica e l’altra svantaggiata sul piano socio-lavorativo (inoccupata, disoccupata, in condizioni di estrema precarietà lavorativa, in mobilità, ecc.), per un totale di più di 20 nuovi posti di lavoro.

 

Gli utili saranno destinati a strutture gemellate che offrono servizi sociali e socio-sanitari per disabili, bambini, anziani, famiglie disagiate. Caratteristiche principali dei negozi Ortofrù sono: prezzo più basso di mercato, prodotti freschi di stagione e locali. I punti vendita sono anche luoghi di informazione sulla corretta alimentazione e sui benefici per la salute del consumo di frutta e verdura.

 

La rete commerciale si servirà, inoltre, di un mezzo di trasporto per la vendita ambulante nelle zone più decentrate e per le consegne a domicilio. Il progetto “Ortofrù” è sostenuto dalla Fondazione CON IL SUD e promosso dal Consorzio Sociale Cooperazione e Solidarietà in collaborazione con un’ampia partnership di associazioni, istituzioni, cooperative sociali e organizzazioni locali.

Bambini-lavoratori in Bolivia: è legge

workersE’ entrata in vigore in Bolivia la legge che autorizza il lavoro minorile dall’età di dieci anni, riducendo ulteriormente il precedente limite, fissato a 14.
La Legge 548, secondo il governo, servirà ad abbattere la povertà del paese consentendo il lavoro in proprio fra i 10 e i 12 anni, vincolato al contesto familiare, ma anche il lavoro dipendente fra i 12 e i 14 anni, con l’autorizzazione dei genitori, e quello fra i 14 e i 18 nel rispetto di tutti i diritti lavorativi.
La nroma prevede tuttavia che i bambini potranno lavorare dall’età di 10 anni a condizione che non sospendano gli studi.
Secondo l’Unicef, in Bolivia ci sono 850.000 i bambini fra i 5 e i 17 anni impiegati in attività lavorative, soprattutto nei contesti più poveri.
La maggioranza sono indios che vivono nelle zone rurali e sono impiegati principalmente nelle piantagioni di canna da zucchero o in miniera.